Data Loading...
e-tu-splendi-giuseppe-catozzella Flipbook PDF
e-tu-splendi-giuseppe-catozzella
2,176 Views
525 Downloads
FLIP PDF 780.09KB
Giuseppe Catozzella E tu splendi
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano © 2018 by Giuseppe Catozzella Published by arrangement with Agenzia Santachiara Prima edizione digitale 2018 da prima edizione ne “I Narratori” marzo 2018 Ebook ISBN: 9788858831946 In copertina: Ustica (Sicilia), 1959 © Sergio Larrain/Magnum Photos/Contrasto. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale.
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
E tu splendi
a Bea, alla tua vita
È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo. Le lepri si sono ritirate e i galli cantano, ritorna la faccia di mia madre al focolare. ROCCO SCOTELLARO
Su’ tante e tante i fóche supr’ ’a terre, ma quille ca cchiù mi piàcete scàttete nd’i sarmente e si fè gghianche e russe nu mumente (Sono tanti e tanti i fuochi/ sopra la terra,/ ma quello che più mi piace/ scoppia fra i sarmenti/ e si fa bianco e rosso/ un momento) ALBINO PIERRO
1.
A essere onesti fin da subito, eravamo una famiglia di invasori in una terra piena di ricchezze e di cose belle. Di nascosto eravamo andati a invadere per il lavoro un posto che non era nostro – questo ce l’aveva detto la suora all’asilo, e per il rapporto speciale che aveva con Dio lei non sbagliava mai. Quel giorno – avevo solo quattro anni – quella donnina incappucciata di nero mi aveva indicato. La notte avevo avuto gli incubi. La mattina dopo, al risveglio, avevo giurato che non volevo essere come i miei genitori, una persona non gradita che andava a togliere il lavoro e a occupare le case, i parchi, le strade e tutte le cose eccezionali: io sarei sempre stato una persona gradita, anzi graditissima, se si può dire. Ci voleva molto coraggio, ma io pregavo ogni notte il Signore che me lo facesse trovare, e poi che mia mamma e mio papà imparassero un accento più simile a quello del Nord, così non ci riconoscevano. Poi, dopo che nostra madre – che si chiama Rosalba, ma tutti la chiamano Rosi – è andata avanti nella strada della vita per aspettarci in un posto ancora più bello dove tutti sono felici, e non abita più da noi, un po’ è cambiato tutto. Ha cominciato a parlarmi con la sua voce dentro la testa, e la sera prima di dormire a me e a Nina cantava la buonanotte, anche se era papà che muoveva la bocca. Dicevamo “ciao, papà”, Nina diceva “buonanotte, papà”, e io pensavo buonanotte, mamma, ma non lo dicevo a nessuno, solo a Nina. Una volta mi aveva confidato che anche lei prima lo faceva. Poi aveva smesso, e quando diceva “ciao, papà” intendeva proprio quello. Adesso ho quasi dodici anni, ed è da quando sono nato che viviamo in via Gramsci, in un posto della periferia di Milano che chiamiamo Milanox (perché è un incrocio tra Milano e un luogo malfamato che si chiama Bronx) dove tutti sono stranieri e meridionali. Nel nostro palazzo – che ha dieci piani e tantissimi appartamenti – sono quasi tutti pugliesi e siciliani, misti a marocchini, indiani e qualche peruviano, però quelli che ci sono più di tutti sono i calabresi. La mia famiglia, invece, è lucana, di un paesino vicino a Matera, e infatti siamo una rarità. Io non l’avevo capito che eravamo orfani, un giorno la maestra l’ha detto
davanti a tutta la classe, e ci sono rimasto malissimo. Non per la cosa in sé, ma per la parola, che non me l’aspettavo proprio che era per me. Mi sono pure messo a frignare un po’, e tutti pensavano che era perché ero un orfano, ma come sempre non avevano capito niente. Allora ho smesso, e facevo di no con la testa, ma continuavano a non capire, e allora tanto valeva. Perché io credevo che era una parola per quelli che avevano perso tutti e due i genitori e si erano liberati una volta per tutte, e invece va bene anche per chi come noi ha una mamma che ha deciso di aspettarci più avanti, per sistemare e farci trovare tutto pronto e pulito. E poi io ho pure Nina, che adesso è a carico mio. Per questo ho piagnucolato, quella era una parola per bambini sfortunati e non per noi, perché io e Nina avevamo tutto. Così, io in quinta elementare e Nina in terza, ci siamo ritrovati orfani, che vuol dire che tua mamma invece di abitare fuori inizia ad abitarti dentro. Che poi nostra madre è un tipo veramente simpatico, e ama tirare brutti scherzi. Per esempio, a me l’anno scorso mi ha fatto bocciare, in prima media, e infatti quest’anno ripeto. Quando abitava ancora da noi, ogni tanto ci faceva trovare, tra le pagine di un libro o di un quaderno, dei biglietti di cartoncino rosso a cui disegnava dei bordi dorati, come quelli che si usano per gli auguri di Natale. Erano delle sue sorprese, che ne so, si divertiva così. Me la immaginavo, la sera, in camicia da notte, con tutti quei ricci in testa e i pennarellini dorati, mentre papà – che si chiama Biagio, detto Gino – in sala dormiva davanti alla tv con la sua copia di Cristo si è fermato a Eboli (la sua Bibbia) chiusa sulla pancia. Un giorno, la professoressa di italiano ci stava facendo fare un tema. Michela era nel banco di fianco al mio, curva sul foglio. Era quasi l’unica della classe a non essere straniera o meridionale, però era bellissima, anche se era un po’ palliduccia, poverina. Dal quadernone mi era scivolato fuori uno dei biglietti di mamma, lo lasciavo lì in mezzo per ricordo. Sono rimasto imbambolato a fissare il soffitto come uno scemo. Poi mi sono ripreso, ho chiamato Michela e le ho passato il biglietto. Non li avevo mai fatti leggere a nessuno quei biglietti, ma mi era venuta voglia, perché il suo maglioncino verde era una collina piena di margherite gialle. Lei lo ha letto ed è scoppiata a ridere, vatti a fidare delle donne. La professoressa ha cominciato a gridare. “Visconti!”, che è Michela. “Corsano!”, che sono io. È venuta e ha strappato il biglietto dalle mani di Michela. Poi è tornata alla cattedra. “Ora lo leggerò ad alta voce, così ridiamo tutti,” ha detto, e si è messa gli occhialini. “...Dunque, qui dice... Lo sai che tu
sei nel cassetto e i sogni sono fuori?” Si è fermata a riflettere. “E che significa?” Significa che sei una ficcanaso, ecco che significa, l’ho pensato ma non l’ho detto, perché sono un signore. Poi ha girato il biglietto e ha letto dietro: “...che è la stessa frase di uno dei miei scrittori preferiti: ‘Se davvero volete sognare, svegliatevi!’. Un bacio”. Si è tolta gli occhialini e ha guardato Michela. “Non capisco cosa c’entrino queste frasi stupide e banali con il tema che vi ho dato. Mi stupisco di te, Visconti.” Poi ha guardato me. “Di te invece no.” Sentivo che stava per venirmi una di quelle crisi di violenza di quando immaginavo di far saltare il mondo per aria, nessuno può insultare mia madre. Bisogna stare all’erta, non si può mai sapere. Mi sono alzato, volevo uscire e tirare un pugno contro il muro. La professoressa si è messa in mezzo, e le sono finito addosso. Ha sbattuto contro il banco di Michela ed è caduta in terra. Nessuno ha fiatato. Lei mi ha fulminato, poi ha raccolto gli occhialini, li ha controllati (una lente aveva un brutto taglio in mezzo), se li è infilati, e con calma si è alzata. Si è aggiustata la camicetta e la gonna. “Adesso tu vieni con me dal preside,” ha detto. Poi con calma ha continuato “ti faccio sospendere, Corsano. E alla fine dell’anno ti faccio bocciare. Cascasse il mondo se non lo faccio”. È stata di parola, anche se ero orfano, e allora mi sono chiesto a che serviva. Orfano e pure ciuccio, abbiamo riso a casa. Infatti, da quando mamma ha deciso di precederci, è successo questo: siccome è lei quella che fa sempre le battute e noi ridiamo (e siccome dice sempre “la vita è un film con un tempo solo che finisce pure male”, che significa che l’unica cosa che si può fare è riderci sopra), allora quella sera abbiamo riso tantissimo. Il giorno dopo sarebbero arrivate le mazzate, ma la sera della bocciatura quante risate! Papà ha pure stappato una bottiglia di vino e si è un po’ ubriacato, si capiva perché rideva alle mie battute (da quando aveva perso il lavoro gli capitava spesso). In ogni caso, per colpa di mamma l’estate che è appena passata, che doveva essere la prima in cui andavo in vacanza tre settimane con i miei amici in un campo estivo, tutto è andato a rotoli. Però non è stato un male. Al punto che adesso questa estate ve la racconto per filo e per segno, perché è successa una cosa che mai avrei immaginato e che mi ha cambiato la vita, e quando le cose cambiano per uno, magari poi possono cambiare per tutti. Insomma, una sera di inizio giugno papà ci ha legato al polso un braccialetto ridicolo con il nome della destinazione – la casa dei genitori di mamma – e ci ha
spedito in quel paesino sperduto tra le colline della Basilicata, quello da cui lui e nostra madre tanti anni prima erano scappati. Ci ha piazzati dentro un pullman diretto alla stazione di Matera e, senza neanche voltarsi indietro, se n’è tornato a casa.
2.
Il sole nasceva lento tra le colline, e con la prima luce io e Nina ci siamo svegliati. Eravamo arrivati in Lucania. Era un altro mondo, in una notte tutto era cambiato. Più ci arrampicavamo per le curve più, sotto, si aprivano boschi e uliveti. Attorno erano tutte colline di frumento giallo. Quando sono comparsi i calanchi, io e Nina ci siamo stropicciati gli occhi e abbiamo iniziato a prepararci. Eravamo quasi arrivati. Quei burroni, quelle dune, quegli avvallamenti erano enormi leoni d’argilla dalle fauci spalancate. Da piccoli, con Refè giocavamo su quei calanchi colorati, rossi, bianchi, gialli e verdi. Facevamo finta di essere cowboy in groppa ai muli, come nei film. Erano i nostri canyon, e noi dovevamo proteggerli dai bambini dei paesi vicini. Saltavamo come grilli: tutto era nostro. Arigliana stava là, aggrappata su una montagna di boschi, in mezzo a due fiumi lontani, l’Agri e il Basento, sopra al piccolo torrente Olmo che tagliava la valle e li univa. Un paese di cinquanta case di pietra e sì e no duecento abitanti. Erano centinaia d’anni che lì sopra non succedeva niente. All’uscita dell’ultima curva del bosco di Chianosa, siamo entrati in paese. La piazza era uguale, vuota e con la torre normanna in fondo. Ad aspettarci c’era Nononna, e come ci ha visti ci è corsa incontro e ci ha abbracciati stretti. Anche Nononna era identica all’anno prima, il grembiule blu fino alle ginocchia, sotto sbucavano i polpacci più secchi del mondo. Gli occhi erano due puntini neri. Era bellissima, anche se aveva la pancia un po’ grossa: sembrava un piccione e rideva di gioia mentre ci stringeva. Teneva i capelli raccolti in trecce, come una vera guerriera vichinga, però arrotolate sulla nuca. Una volta li aveva sciolti ed erano lunghissimi. Nononno invece era rimasto in cima alla salita che porta a casa. Ha salutato da lontano con la mano. Anche lui era uguale, magro magro e con la testa piena di capelli bianchi tagliati a spazzola, come un generale d’armata. Chissà cosa pensano i vecchi, secondo me ci rimangono male quando vedono i bambini, per il fatto che quelli ogni volta sono diversi e loro invece sono sempre uguali: io spero che non mi succederà mai una malattia brutta come la vecchiaia.
I nonni vivono in cima a una salita, in una grande casa di pietra che appartiene alla famiglia di Nononno da tante generazioni. Sono stati proprietari di terre, ma quando nonno era giovane è successa una cosa di cui è vietato parlare, e hanno perso tutto. Però a me e a Nina quella casa piace perché è proprio grande, e i muri sono spessi come quelli di una grotta. Nella sala da pranzo al piano di sopra c’è un camino gigantesco che nei secoli ha riscaldato la casa e le minestre. Dal soffitto scende la camastra di ferro annerito dove si lega la pentola. Da piccolo, quando giocavamo a nascondino, mi nascondevo là dentro e nessuno mi trovava. Da fuori arriva un solo suono: le campane che battono l’ora. Di sera, i grilli cantano nella campagna, e dal balcone si vedono le luci degli altri paesi in cima alle colline. Tutto è sospeso e danza. Arigliana è dentro un presepe. Però la cosa che di Arigliana mi piace più di tutte è l’odore: l’odore di pietra al sole. Oltre alla casa, ai nonni è rimasta la bottega – lì di fronte –, dove Nononna ancora lavora, anche se è decrepita come tutti i vecchi, e poi pure tantissima terra, che però è morta e non serve a niente. Nononna portava sempre a casa degli uccelletti con le ali spezzate, o delle tartarughine, o dei pulcini, li metteva dentro le scatole delle scarpe con i buchi per l’aria, e io e Nina potevamo guardarli e dargli da mangiare quanto volevamo. Qualche anno prima aveva portato un pappagallino verde e giallo e gli aveva insegnato a dire “Pietro”, che poi sarei io, e pure a dire “Nina”, e lui li diceva almeno dieci volte al giorno. Perciò nonna ha detto “lo volete un passerottino?”, ed era allegra. Nina ha subito risposto “sì, lo vogliamo, lo vogliamo!”. Anch’io penso che non c’è niente di meglio che essere allegri, pure se uno è triste. Nonno invece è sempre incazzato. Quando ci sgrida (e ci sgrida molto spesso), Nononna lo rimprovera, e lui prova a zittire anche lei ma non ci riesce, perché nonna è invincibile. Per il fatto che le terre della sua famiglia erano morte e non servivano più a niente, nonno aveva una zecca che gli viveva dentro lo stomaco e non lo lasciava in pace. Difatti è l’unico vecchio di Arigliana magro come una cavalletta, e tutti in paese sanno che è per via della rabbia, altro che il diabete. In cucina, insieme ai setacci, alle padelle e alla spasa su cui nonna la domenica fa la pasta (la pasta fatta in casa di Nononna è la cosa più buona al mondo), al muro è ancora appeso il quadretto in cui, quando tutto è successo, nonno aveva deciso di scolpire la sua rassegnazione e il suo rancore. CRISTO NON È MAI ARRIVATO QUI,
NÉ VI È ARRIVATO IL TEMPO, NÉ LA SPERANZA, NÉ LA RAGIONE, NÉ LA STORIA.
È una frase di Cristo si è fermato a Eboli, che è la Bibbia di nonno oltre che quella di papà, e per Nononno significa l’ingiustizia della sua terra dimenticata da Dio e dagli uomini. E tutto per colpa di zi’ Rocco, che è quello di cui in casa non si può parlare. “Sì, ma noi pagavamo. Noi siamo sempre stati brava gente. Contadini, prima di essere possidenti. Non abbiamo mai smesso di zappare,” dice Nononno, le rare volte in cui zi’ Rocco viene fuori nelle conversazioni. Gli piace tantissimo dire la parola “possidenti”, se la arrotola in bocca come una caramella alla menta, però le esse gli fischiano nella dentiera, e io e Nina ridiamo come pazzi. Possshidenti. Ogni famiglia ha un soprannome, e quello della famiglia di Nononno era stato proprio Possident’. Ma dopo che era caduto in rovina, nonno aveva minacciato chiunque continuava a chiamarlo così, e alla fine il soprannome è sparito. In paese si usa quello della famiglia di nonna, che è Alicett’, perché da giovani un po’ assomigliavano a dei pescetti. Così ogni tanto qualche vecchio, quando passiamo davanti a casa sua, ci chiama Pietro e Nina Alicett’, e a noi piace moltissimo. Pietro e Nina Alicett’. Non gliel’ho mai detto, però anche Nina un po’ assomiglia a un pesciolino salato. “Sarà perché hanno smesso di zappare, che loro hanno ancora tutto e noi niente,” lo stuzzica Nononna, e iniziano a litigare. “Io le campagne degli altri non le avveleno! Non le ho ammazzate io, metà delle terre di Arigliana!” Non ho mai sentito nessuno litigare come loro due. Si beccano su tutto, i Nononni, ma quando c’è di mezzo zi’ Rocco nonno perde proprio la ragione. Solo una volta, quando avevo sette anni e si vede che mi considerava grande abbastanza da essere il suo erede, Nononno mi aveva portato nella parte più alta del paese, la piazza alta, dove ci sono le grotte del vino e si domina la valle, e mi aveva raccontato tutto. Per filo e per segno. Non me lo sono mai dimenticato. Poi non ne ha parlato mai più. Da là sopra si vedeva il torrente Olmo, un serpente lunghissimo che tagliava la campagna da una parte all’altra. Ormai era solo una raccolta di sassi, ma un tempo era stato carico d’acqua. “Di là dal fiume era la nostra terra,” mi aveva detto nonno, puntando il dito verso l’aperto della valle. Oltre quel serpente secco era tutta terra selvaggia, gialla, bruciata, abbandonata. Morta. Faceva impressione. Al centro della distesa desolata c’era una masseria diroccata. “Un tempo quella era la mia vita,” aveva detto Nononno. “E prima, quella di mio
padre e di mio nonno, e prima ancora quella di suo padre.” L’aveva costruita il suo bisnonno, e l’aveva chiamata Masseria Lucania. Era stata la prima masseria di Arigliana. La loro, la prima famiglia di possidenti. Adesso erano solo mattoni che tenevano in piedi le grandi travi di legno del tetto. “Di qua dal fiume invece c’è la terra di zi’ Rocco”, quel nome era riuscito a malapena a pronunciarlo, poi aveva sputato. Era una meravigliosa distesa di rettangoli di colori diversi, la stoffa di un vestito ricchissimo. I trattori alzavano polveroni, a vederli lavorare mettevano pace. Al centro c’era la gigantesca azienda agricola. Poi nonno aveva tirato il fiato. Non l’ho mai più visto così agitato, mentre parlava le mani gli tremavano dalla rabbia, me ne sono accorto perché mi accarezzava la testa. Zi’ Rocco aveva fatto l’emigrato in Germania, poi era tornato al paese. Lì aveva capito come si fanno i soldi: avrebbe smesso di vendere i frutti della terra, come avevano fatto suo padre e suo nonno, e avrebbe prodotto conserve per i supermercati del Nord Italia. Per farlo, però, aveva bisogno di non avere concorrenti. Non ci aveva pensato due volte. Aveva approfittato della festa di Ferragosto, quando tutto il paese si riunisce in piazza per guardare i fuochi d’artificio, e il frastuono dei botti copre ogni cosa. Con i suoi scagnozzi aveva affittato un elicottero e dall’alto aveva spruzzato il veleno. In una sola notte aveva ucciso tutte le terre al di là del torrente: le terre di Nononno e di qualche altro piccolo proprietario. Dopo qualche settimana le piante avevano cominciato ad ammalarsi. Tre mesi dopo non esisteva più un ulivo, una vite, una spiga di grano, un albero di noce, un fagiolo, una zucca, un pomodoro, niente di niente che desse frutto. Tutti sapevano che era stato zi’ Rocco, ma nessuno aveva le prove. I debiti che nonno aveva fatto per comprare altre terre e altri animali erano talmente grandi che, a causa delle mancate consegne, l’unica cosa possibile era stata vendere animali e mezzi. Tenere la terra, ma vendere tutto il resto. E fallire. Chiudere per sempre la Masseria Lucania. Zi’ Rocco poi aveva abbassato sottocosto il prezzo del suo grano, delle sue olive, dell’uva, delle noci, della frutta, dei pomodori e della verdura. Ogni cosa. Così, quelli che ancora avevano un po’ di terra da questa parte del torrente erano falliti anche loro, uno a uno: non potevano reggere i suoi prezzi. Poi si era presentato alle loro porte: vicini di casa, cugini, parenti. Si era comprato le loro campagne per due spicci. Nel giro di quattro anni era rimasto solo lui, a produrre. Trenta ettari: tutta la terra tra il paese e il torrente. Allora aveva aperto un’azienda di conserve, e per
sfregio l’aveva chiamata Masseria Lucania. Poi, quelli che avevano lavorato per Nononno erano passati a lavorare per lui. Non avevano avuto scelta. Zi’ Rocco li pagava poco più di quanto serviva per campare. Nononno, nelle sue terre, non ci aveva mai più messo piede. Il dolore per il fallimento era stato talmente grande che erano morte insieme a lui. Quando aveva finito di raccontare, nonno aveva stretto la ringhiera della piazza superiore, come una tenaglia. Io, basso com’ero, mi ero girato verso di lui. Nonno guardava nel vuoto, fissava le campagne. Gli occhi fermi, i capelli corti come un militare. “Non dire a tua nonna che te l’ho detto,” mi aveva fatto giurare. Poi aveva sorriso, ma si vedeva che era un sorriso forzato. Io però, lo stesso, mi ero baciato le dita incrociate sulla bocca.
3.
La bottega di Nononna è bellissima, è uno dei pochi motivi per cui vale la pena visitare Arigliana. È un mondo incantato, lì dentro si vende tutto: le caramelle mou, la carta igienica colorata, il bagnoschiuma Felce azzurra, le pesche sciroppate, i pelati, le sigarette, la cannella e il rafano sfusi, le patatine San Carlo, i bottoni, la pasta di tutti i tipi, i cotton fioc e i fazzoletti di stoffa più profumati del mondo. Ogni cosa è avvolta in un odore magico di buono, e poi in fogli di carta di giornale. Quello è l’unico modo in cui si usano i giornali, a casa dei Nononni, a parte una rivista con il nome scritto in rosso a cui nonno è abbonato e che piace anche a me per via delle donne con i reggiseni e le mutande. Nella bottega entrano tutti, è un luogo di ritrovo più che un negozio. Ma la gente, le vecchie, ci vanno quasi solo per parlare, e questo non fa molto bene agli affari, anche se i Nononni hanno la minima – e ne vanno molto fieri. Stare alla bottega per me è sempre stato comodo, perché lì davanti passano tutti, quindi pure i miei amici, anche se come sempre li aspettavo con un po’ di agitazione. Nina invece è meno timida, e il giorno stesso che siamo arrivati è andata a suonare a casa del giudice Lopiano, per vedere le gemelle perfettine Valeria e Imma, e poi a casa del macellaio, dove c’era Pasquina, che invece è un maschiaccio e ogni tanto impreca pure. Io era Refè quello che come ogni anno aspettavo di più di rivedere. Continuavo a chiedermi se era cambiato, alla nostra età la natura gioca brutti scherzi, dalla sera alla mattina ti ritrovi adulto senza accorgertene. Refè, che sul certificato di battesimo si chiama Raffaele, abita proprio sotto casa di Nononna, quindi di sicuro lui o sua sorella Mariangela o il fratello piccolo, Donatino, ci avevano sentiti arrivare. Nello slargo si apre una porta bassa che dà dentro il lammione dove vivono loro. Quasi ogni casa, sotto, ha una grande stanza umida senza finestre, tre o quattro scalini sotto terra, piena di muffa, dove prima si tenevano gli animali: l’asino, i maiali, le galline. Refè vive nel lammione della casa dei Nononni, dove hanno dormito gli asini che ogni sera riportavano a casa dalla campagna il nonno e il papà di Nononno. Fuori, sul
muro, da ganci di ferro arrugginito pendono quattro file di peperoni rossi e le teste d’aglio, a seccare. Vicino alla porta c’è una pilozza scavata nella pietra: un tempo ci lavavano i panni e ci bevevano gli animali, poi è diventata la nostra macchina di Formula Uno. Refè è povero, e ogni tanto se ne va in giro con delle magliette mie che mamma gli regalava senza dire niente. La prima volta che gliene avevo vista una, avevo cercato di strappargliela a morsi. “Ridammi la maglietta di Superman, è mia!” avevo gridato. “No, è mia!” aveva urlato Refè. “È la mia, sei un ladro!” “C’è scritto il tuo nome da qualche parte?” Mi aveva guardato fisso, con gli occhi che erano quelli di un lupo. Gliel’avevo strappata, mordendolo sulle orecchie e dove capitava. Facevo le cose che faceva lui, anche se è più piccolo di un anno. Mentre io e Nina riempivamo tanti sacchettini di stoffa da un barattolo di semi di finocchietto, alla bottega sono arrivati Domenico e Enzuccio, i due cugini, i figli dei falegnami. Sono saltato sulla sedia, vederli mi ha subito tolto la timidezza. Gli occhi ce li avevano sempre uguali, tutti e due, da furbi, due fari luminosi. Domenico era sulla Vespa rossa (truccata con un carburatore 250 e la marmitta di un Tir), ha sgasato e strombazzato. Erano diventati grandi veramente, a quattordici e tredici anni sembravano già due ragazzi, avevano i puntini della barba. Io avevo undici anni ed ero ancora un mezzo bambino, stavo aspettando lo sviluppo, ogni mattina mi guardavo allo specchio in cerca dei baffetti, ma niente. Domenico l’anno prima faceva le dita a tenaglia, mi afferrava il pisello con tutti i pantaloni, tirava e diceva “cresce? Eh, cresce?!” e mi faceva un male cane, ma ancora il pisello non cresceva. Sognavo di avercelo grandissimo, così le ragazze si spargevano la voce e poi facevano la fila per toccarlo. Quando mi ha visto, a Domenico sono brillati ancora di più gli occhi neri. Ha spento la Vespa e ha detto “sei fatto grande, Pietri’”, ma si capiva che non lo pensava, infatti Enzuccio suo cugino ha riso. “Seee, aquann’ che ven’”, proprio si ammazzava dal ridere. “Io sono già grande,” ho detto, e loro ridevano ancora di più. Allora mi sono fermato sulla porta della bottega e abbiamo cominciato a scherzare un po’. Domenico si era riempito di dopobarba, sui ricci si era messo un sacco di brillantina, e pure Enzuccio. Erano cugini ma si assomigliavano
come fratelli. Potevano essere due attori del cinema, i visi erano scolpiti, le mascelle quadrate, il naso dritto, gli occhi tagliati all’ingiù. Mentre parlavamo, da un vicolo nella piazzetta della fontana è sbucato Refè, i passi corti e pesanti, i capelli rapati a zero. L’ho riconosciuto subito, anche se non mi è sembrato vero. Volevo chiamarlo, ma mi si è come bloccata la voce in gola. Pareva un’apparizione, come se attorno aveva una luce. L’abbiamo guardato mentre si avvicinava, tozzo, la testa bassa, aveva sempre l’aria che pensava a chissà che. Quando era a pochi metri, Domenico ha detto “Refellu’”, che era un saluto. Però lo ha squadrato con aria di superiorità: arrivava dalla campagna, era sporco e puzzava di animali. Enzuccio l’ha chiamato col soprannome, Sanaporce’, perché la famiglia di Refè aveva sempre girato per il paese a castrare i maiali e le scrofe degli altri. Adesso non si faceva più a mano, però il soprannome era rimasto. Una volta, quando eravamo piccoli, Refè l’aveva fatto, per farmi vedere. Il maiale è facile, i testicoli sono fuori, basta tirarli e se ne vengono. Alla scrofa invece bisogna fare un’incisione nel fianco, estrarre l’intestino con le mani e strappare le ovaie attaccate. E poi rimettere tutto dentro. Dopo averle staccate, aveva lanciato le due palline a Lupo, il vecchio cane pastore con cui passava le giornate. Lupo le aveva divorate. Poi con un ago enorme Refè aveva ricucito il taglio. La scrofa aveva grugnito ed era tornata tra le sue compagne. Refè ha fatto finta di non aver sentito Enzuccio, perché quello non era un bel soprannome. Allora Domenico con la mano l’ha mandato a quel paese, ha riacceso la Vespa, ha dato un colpo di clacson per salutare nonna, ha sgasato e i cugini se ne sono andati. Quando il rumore del motore era lontano, Refè è passato davanti alla bottega e ha detto a Nononna “buonasera, zi’ Beatri’”. Solo allora si è accorto di me, di fianco alla porta: non mi aveva riconosciuto. Nina dal bancone ha sventolato le mani, allora Refè si è concentrato, ha capito chi eravamo e ha sorriso. Quello veniva da un altro mondo. Era diventato un po’ più alto, ma i pantaloncini e la maglietta erano gli stessi dell’anno prima, blu con le stelle e i pianeti bianchi. Era più sfuggente, anche se aveva solo dieci anni. Finalmente ci siamo guardati negli occhi. “Refè,” l’ho chiamato. Lui mi ha fissato e ha sorriso di nuovo. Questa volta era il suo sorriso vero. Poi ha detto che andava a lavarsi.
Nonna ha fatto la voce dolce, “Refellu’, come andiamo?”. Ma era troppo tardi, lui era già dietro l’angolo. Però il tono di nonna mi ha fatto venire la gelosia. Tra loro (e tra Refè e Nononno ancora di più) c’era il legame che unisce le persone che lavorano la terra. A me m’avevano lasciato fuori. La verità era che a me della terra piaceva sentire il profumo, l’odore del fango e della cicoria, del rafano, mi piacevano le pannocchie lesse e fumanti col sale che nonna ci portava la sera, mi piaceva vedere i trattori che aravano e la mietitrebbia che ripuliva, mi piaceva correre in mezzo alle spighe e giocare ai cowboy tra i calanchi. Però non mi piaceva lavorarla, la terra, svegliarmi alle quattro e spezzarmi la schiena per dissodare, arare, zappare, sarchiare, concimare: quelle erano le cose che faceva Refè. Poi Nononna ha detto che doveva andare al magazzino a controllare i nuovi arrivi, se io e Nina potevamo occuparci per un po’ della bottega da soli. Abbiamo detto “sì sì, nonna, vai, vai”. Appena è uscita, ci siamo guardati. Non aspettavamo altro. Ogni anno quello era il nostro rito. Sapevamo cosa dovevamo fare. Abbiamo controllato la porta, non arrivava nessuno. Nel muro in fondo, in un angolo, c’era uno stipo nero che stava sempre socchiuso, a parte ad agosto, che era il suo mese, e veniva spalancato. Piano piano ci siamo avvicinati. “Apri tu,” ho detto a Nina, e già tremava. “No, tu.” Mi sono fatto coraggio. Ho dato un colpo secco, da sotto, alle due ante, che si sono aperte insieme. La Madonna Nera di Viggiano era sempre lì, sotto la campana di vetro: immobile, gli occhi sbarrati, terribile. La Protettrice della Lucania. Davanti al vetro c’erano due fioche candele rosse elettriche e un’immaginetta votiva. Quella Madonna era negra, non sembrava la mamma di Gesù Bambino, con i capelli biondi e il mantello azzurro come una principessa. Metteva terrore. “Che fate?!” La voce ha tuonato forte. Siamo saltati all’indietro per lo spavento. Era Nononno. Era entrato nella bottega e noi non ce n’eravamo neanche accorti, immobili davanti agli occhi tremendi della Madonna.
“State buoni, voi due, non cominciate a fare danni. Altrimenti vi porto dalla Menzasignor!” Nina si è messa la mano davanti alla bocca. Pure a me sono venuti i brividi, mannaggia a nonno. La Menzasignor era una creatura che esisteva veramente ed era terrificante, abitava in un grande palazzo stregato vicino alla casa dei Nononni, dietro la casa di zi’ Salvatore. Era una nobile morta duecento anni prima, che il marito aveva tagliato in due, e che dopo essere morta aveva vagato per il paese in cerca del marito per vendicarsi ma, siccome lui era scappato, era tornata a vivere nel palazzo, e scaricava la sua vendetta su chiunque. Faceva il servizietto sotto al collo. Zac!, un taglio netto. Il segnale che dava a quelli che sceglieva era inequivocabile: una lucina. Se all’improvviso vedevi una lucina eri finito. Spacciato. Capùtt. Il palazzo della Menzasignor era talmente pericoloso che nessuno in tutta la storia di Arigliana ci era mai entrato. Era disabitato, protetto da un grande cancello nero, le tende scure davanti alle finestre, l’erba del giardino alta un metro e il cortile pieno di schifezze. Quand’ero piccolo vedevo lucine ovunque, e non dormivo per nottate intere. E anche adesso, ogni tanto mi capitava. Manco Nononno avrebbe mai avuto il coraggio di avvicinarsi a quel palazzo, altroché. Quella si veniva a prendere pure lui. Però, ora che mamma non viveva più da noi, magari ci pensava lei a proteggermi.
4.
La mattina dopo è squillato il telefono, e ogni volta che squillava il telefono, anche se cercavo di non farlo succedere, pensavo che era mamma che mi doveva dire una cosa. Infatti, prima, quando squillava il telefono a casa dei Nononni era sempre mamma che mi doveva dire una cosa, e adesso invece era sempre papà che ci voleva salutare, e anche se papà è papà non era la stessa cosa. Perché la verità è che io a mamma, la mattina prima che lei se ne andasse, avevo fatto una domanda, e lei non aveva avuto il tempo di rispondere. Mi aveva detto “adesso devo uscire, Pi, ne parliamo stasera”, e poi se n’è andata nell’altra casa, e io quella risposta non l’ho mai avuta. E allora ogni volta che sento una voce, oppure squilla il telefono, penso sempre che è lei che mi chiama per rispondermi. Però ho fatto una cosa che non avrei dovuto fare. Ma se l’ho fatta è perché sono sicuro che mamma prima di andare via la risposta l’ha lasciata scritta da qualche parte, come faceva con i suoi bigliettini o come si fa quando si va a fare la spesa e su un foglio si scrive la lista di quello che serve. Papà ci aveva detto di stare alla larga dalle cose di mamma, soprattutto dalla scatola di cartone che stava sul fondo del suo armadio, però io e Nina il pomeriggio, quando eravamo da soli, la aprivamo e ci guardavamo dentro. Non è colpa nostra, è che la casa improvvisamente era diventata troppo piccola per noi due, e dovevamo trovare qualcosa da fare. E dentro quelle ante io e Nina ci perdevamo, perché venivamo investiti dall’odore di mamma, che lì era ancora tale e quale, in mezzo a tutti quei vestiti appesi, soprattutto quello bello, bianco con i girasoli gialli, che mamma portava il giorno della mia prima comunione. Quanto ci avevo pianto sopra... È incredibile come un armadio si tiene l’odore per sé e non ne lascia un po’ anche agli altri. È incredibile l’egoismo degli armadi. E poi, dentro quella scatola, io e Nina il pomeriggio ci perdevamo perché c’era di tutto, tutte le cose che mamma si era dimenticata a casa, e che solo a tenerle in mano era come se mamma era lì, perché i fogli era come se li aveva appena ripiegati, i fazzoletti appena usati, i pennarelli appena sistemati.
Allora, dentro c’erano: bottoni sbagliati, resti di gomitoli di lana, il fondo di alcuni jeans e di alcuni pantaloni che aveva tagliato perché si rifaceva tutti gli orli a macchina (mamma era bassa, ma faceva finta di no con i tacchi), alcuni rossetti che non erano proprio finiti e molte cose dei trucchi, tipo le matite per gli occhi. Ed era strano, perché più io e Nina prendevamo in mano quelle cose e ci giocavamo facendo finta che mamma era lì, più tutti e due venivamo morsi da un cane, però da dentro, e quei morsi facevano male perché sia a me che a Nina uscivano molte lacrime, però continuavamo lo stesso. Si può essere più scemi? E una volta, a letto, di quel cane io e Nina abbiamo anche parlato, perché tutti e due lo sentivamo, e gli abbiamo pure dato un nome, lo abbiamo chiamato Canetto, e poi Canetto è diventato il nostro cane. Perché non era un cane cattivo, era come i cuccioli quando mordono forte perché non sanno che per giocare devono mordere piano. E allora, quando volevamo buttarci dentro l’armadio, dicevamo “andiamo a trovare Canetto”, così era impossibile che papà ci capiva. Però io, un pomeriggio che Nina era a casa di una compagna a fare i compiti, ho fatto di più e mi sono messo a cercare dentro le giacche e i pantaloni appesi, proprio nelle tasche (non so cosa mi era preso, ma l’odore di buono era forte), e così in una giacca ho trovato una cosa che mi ricordavo benissimo, e quando l’ho vista Canetto ha cominciato ad abbaiare, e poi a mordere e a tirare con tutte le forze. Era il portafogli di mamma, non so perché era nella tasca di quella giacca invece che nella borsa. L’ho aperto e ho guardato dentro: c’erano soldi di carta, qualche moneta. E poi c’era quella piccola foto. Anzi, la metà di una piccola foto; ed era proprio minuscola. E anche se era tutta intera sarebbe stata molto piccola, era del formato quadrato che si usava prima, forse quattro o cinque centimetri per lato, con i colori sbiaditi e i margini smangiati. E così io l’ho presa, questa fotina che era proprio piccola, e me la sono rigirata tra le mani, e dietro mi sarei aspettato una delle frasi a effetto di mamma, ne ero sicuro, una di quelle prese da qualche scrittore, perché lei leggeva un mucchio di libri. E invece non c’era scritto niente, solo la scritta FotoCOLL Arigliana, che voleva dire che era stata sviluppata in un posto di Arigliana. E poi a penna, subito sotto, Arigliana, Matera, 13 marzo 197-, e basta. La calligrafia era quella di mamma, dubbi non ce n’erano. Era la foto di una ragazzina molto simile a Nina, però più grande, magari di un paio d’anni più di me, diciamo sui tredici anni. Aveva un bel cappottino di lanetta color giallo canarino, e sorrideva felice.
Era nella piazza di Arigliana, che era un po’ diversa da come è nella realtà, cioè adesso. Dietro si vedeva la torre, che invece è rimasta uguale. L’ho guardata bene, e poi ancora meglio, per capire chi era quell’estranea bambina che aveva rubato gli occhi a Nina e mi guardava dal passato da dentro quella foto: erano proprio gli stessi occhi a pertusidd’. Due buchini neri profondissimi. Ma non poteva essere mamma, perché mamma era grande e non era mai stata una bambina come me e Nina, e se era mamma non ci volevo pensare, perché voleva dire che qualcuno si era dovuto prendere cura di lei e non soltanto lei di noi, e questo non era possibile, perché nostra mamma era nostra mamma e basta. E infatti questa tra tutte le cose era proprio la più impossibile. Comunque, per non sbagliare, quel pezzetto di foto me lo sono messo in tasca e ho deciso che l’avrei portato sempre con me, sempre sempre sempre con me, come un portafortuna, come aveva fatto mamma. Ho ricominciato a cercare dentro la scatola: c’era un sacchettino di stoffa di qualche battesimo, con ancora dentro i confetti. L’ho svuotato, tanto non se ne sarebbe accorto nessuno, e dentro ci ho messo il moncherino di foto. Poi ho preso un cordino e mi sono legato tutto al collo, sotto la maglietta.
5.
Qualche giorno dopo Refè è venuto a bussare, nel primo pomeriggio. Io ero sdraiato sulla poltrona in sala e leggevo il libro che la professoressa aveva assegnato per le vacanze, Centomila gavette di ghiaccio. Anche se ero stato bocciato non volevo rimanere indietro, era brutto che tutti lo leggevano e io no. Refè sembrava un cane randagio, senza capelli, gli occhi cisposi. Faceva un po’ schifo. “Se n’è andata l’acqua,” ha detto, e si grattava in testa (ogni settimana si rasava i capelli per non prendere i parassiti dagli animali). “Non mi sono potuto lavare.” Secondo me era una scusa. Però ogni tanto al paese l’acqua se ne andava per davvero, e le donne dovevano camminare fino alle fontane per riempire i bidoni. Noi avevamo la cisterna, loro no. Refè aveva la pelle bruciata dal sole e le mani fatte di calli. Sembrava un lupo. Non parlava una parola di italiano, così io ero costretto a tirare fuori il mio mezzo dialetto: sapeva a malapena scrivere il suo nome e a stento leggeva, ma a me non interessava. Dovevamo trovarci in piazza insieme agli altri per una partita di calcio: quello era l’unico modo, ogni anno da quando eravamo piccoli, in cui l’estate per noi poteva cominciare. Era un appuntamento. E ancora non potevo sapere che – proprio per quella partita – ad Arigliana le cose sarebbero cambiate per sempre. In giro non c’era nessuno, tranne noi e dei vecchi brilli che entravano e uscivano dal bar di Peppino. Giocavamo come se fosse la finale dei Mondiali, si potevano pure dare le spinte forti, valeva tutto tranne i morsi. C’erano anche Nina e le gemelle, e Pasquina. Loro stavano sedute sulle panchine di marmo della piazza facendo finta di tifare, e invece parlavano di balletti e di finti fidanzati della tv. Pasquina per la verità si vedeva che voleva giocare a calcio con noi, ma era una femmina e non poteva. Eravamo io, Domenico, Enzuccio, Refè e Giovannino, che era il figlio di Nino il farmacista e stava con tutti in paese, a seconda dei giorni. Giovannino era sempre felice e nessuno sapeva perché, era fatto così. Era grasso ma in porta era fortissimo, con lui era quasi impossibile prendere gol. C’era pure Maradona, che
era il più bravo di tutti. Maradona si chiamava così perché era preciso al calciatore vero, basso e grassoccio, i capelli crespi nerissimi, ma era fortissimo. Tutti dicevamo che un giorno avrebbe davvero giocato in Nazionale, era capace di fare anche mille palleggi tutti di fila, ma siccome si stancava il suo record era settecento. Quando Refè l’ha visto si è subito indurito. Maradona non gli piaceva, perché era come lui: pure lui lavorava nei campi di zi’ Rocco, come tutti quelli della sua famiglia, e pure lui era basso e forte. Loro due giocavano sempre contro. Eravamo io, Domenico e Maradona contro Enzuccio, Refè e Giovannino. Era quasi sicuro che vincevamo. Ogni volta che Maradona toccava la palla, Refè rischiava di spaccargli la caviglia, non sapeva giocare, aveva le gambe che sembravano tronchi. Ci studiavamo, non riuscivamo a staccarci dallo zero a zero. All’improvviso Domenico ha tirato fortissimo, la palla ha sbattuto contro la ringhiera della piazza ed è finita sul costone della torre. Ero il più vicino, allora sono scattato a recuperarla. Scalare la torre mi faceva sentire selvaggio, mi sembrava di essere come uno del paese o come Refè quando sapeva il nome di tutte le piante e di tutti gli alberi, e volevo fare lo sbruffone. Sono andato sul retro della torre, come facevamo con Refè quando eravamo piccoli, perché da lì era più facile. Mi sono fatto il segno della croce e sono salito. Mi sono arrampicato quasi fino al costone, e ho guardato bene in giro. La palla là sopra non c’era, e non si era nemmeno incastrata tra i muri della torre e della chiesa, che erano vicinissimi. Chi aveva costruito la chiesa aveva usato il righello, i muri quasi si toccavano alla base, poi quello della torre si inclinava e lì in mezzo ci stava giusto il corpo di un bambino. Allora doveva essersi fermata ancora più su, dove crescevano le erbacce ed era pieno di cacche di gatti e di corvi. Ho lanciato un grido verso gli altri. “Arrivo! Qui non c’è. È più su.” “Muoviti, polentone,” ha gridato Domenico. “Che mamma ha messo il caffè.” Lo faceva apposta a chiamarmi “polentone”, come se ero uno qualunque del Nord, lo sapeva che mi arrabbiavo. In tre passi sono arrivato sopra al costone, dove c’era la porta con la scala a chiocciola che saliva in cima. Ho fatto tutto il giro, e finalmente ho visto la palla: era andata a infilarsi tra i rovi. L’ho presa e l’ho calciata giù. Quelli non mi hanno manco aspettato, hanno ricominciato subito a giocare.
Mi sono guardato intorno. Da là sopra si vedeva la parte alta di Arigliana: pure il tetto della casa di Nononna. A ogni passaggio sentivo Maradona che con la voce faceva il boato della folla. Mentre scendevo, ho appoggiato il piede sul margine basso della feritoia, dove da piccoli con Refè ci fermavamo per vedere se le teste entravano ancora. Era un esperimento: se entravano, anche per quell’anno eravamo ancora piccoli. Ho provato. Mi sono avvicinato piano. La testa entrava. A diventare grande ci avrei pensato l’anno dopo. All’improvviso, di fronte a me, dentro il buio della torre, ho visto un lampo: una luce che arrivava dal buio delle segrete. Sono rimasto pietrificato. La lucina. Ho chiuso gli occhi. Era la Menzasignor che era venuta a chiamarmi. Mi tremavano le mani e le gambe, per poco non cadevo. Ho cercato tutto il coraggio che avevo, dovevo guardare ancora, dovevo essere sicuro di non essermelo sognato. Piano piano ho riaperto gli occhi. La lucina era sempre lì. Ero rovinato. La mia vita era finita. Poi ho riguardato, ma un momento dopo non c’era più. Non riuscivo a muovermi né su né giù, arrampicato a metà della base della torre, di fronte alla feritoia: era proprio come me l’ero sempre immaginata. Era venuta a prendermi. Ho iniziato a sudare, il cuore era come un tamburo. La lucina proveniva dal niente, da un posto dove c’era stato sempre e solo buio, per secoli. Eravamo entrati là dentro mille volte e non c’era mai stato niente. Ho gridato agli altri, perché sentire una voce dà sempre coraggio, anche se è solo la tua. “Ehi!” ho urlato. “Ehi!” Però la voce usciva strozzata. Nessuno ha risposto. Ero dalla parte opposta del bastione, se allungavo la gamba all’indietro toccavo il muro della chiesa. “Eeehi!” ho riprovato ancora più forte. “Qua c’è una luce! Dome’! Enzu’! Refèèè!” Niente. Poi dalla piazza hanno iniziato a gridare come matti. Domenico aveva fatto gol, si capiva perché urlava come se avesse segnato veramente alla finale dei Mondiali. Allora ho guardato di nuovo dentro.
Non c’era più niente. Però io la lucina l’avevo vista. Ho chiuso gli occhi e ho fatto come faccio nelle situazioni disperate. Ho cacciato una mano sotto la maglietta e ho stretto forte il sacchettino con il moncherino di foto. Ho preso coraggio. Con un salto ho toccato terra e ho raggiunto gli altri. Stavamo vincendo uno a zero. Abbiamo giocato altre due ore, erano le partite più lunghe della storia. Però io non ci stavo con la testa, sbagliavo tutto, Domenico mi mandava a quel paese, a un certo punto mi ha messo fisso in porta. Alla fine abbiamo vinto undici a nove. Maradona era fortissimo, ogni volta che aveva la palla tra i piedi faceva gol, anche se Refè cercava sempre di falciarlo. Quando abbiamo finito, Domenico ha acceso la Vespa e si è messo a fare le impennate in piazza per festeggiare la vittoria. “Vai con la mota, che è meglio! A pallone fai caca’,” gli ha gridato Refè. Domenico ha accelerato ed è andato a sgommare a tre centimetri dai suoi piedi. Refè ha fatto un salto all’indietro e l’ha mandato a fanculo. Poi Enzuccio è salito in sella dietro di lui. “Andiamo alla Villa,” ha detto Domenico. Era il giardino comunale, nella parte bassa del paese. L’unica cosa che si faceva lì dentro era camminare avanti e indietro, ma almeno c’era un bar. “V’ scit’ a fa’ le birre,” ha detto Pasquina, e ci sarebbe andata pure lei, si vedeva che moriva dalla voglia. Domenico le ha strizzato l’occhio. Dal bar di Peppino, lì vicino, sono usciti tre vecchi, avevano finito di giocare a carte. Quello in mezzo era zi’ Vincenzino ed era completamente ubriaco, stava a braccetto degli altri due così non cadeva. Da quando ero nato l’avevo visto solo seduto al bar di Peppino a bere l’amaro Lucano. “Poveretto,” ha detto Pasquina. “Non vorrei essere in zi’ Annina.” Zi’ Annina era sua moglie, ed erano anni che nessuno la vedeva in giro, in paese. Chissà che faceva, sempre chiusa in casa. I vecchi hanno girato la testa verso di noi. Domenico e Refè hanno alzato il braccio in segno di rispetto: gli anziani erano amici dei bambini, i braccianti dei giudici, i falegnami dei farmacisti, i possidenti dei pastori. Domenico ed Enzuccio sono andati alla Villa. Io, Refè, Giovannino, Nina, Pasquina e le gemelle siamo tornati verso casa. Facevo finta di niente, ma mi stavo cacando sotto dalla paura.
6.
Tutti quelli che l’avevano vista dietro i vetri della finestra dicevano che la faccia della Menzasignor era pallida e aveva pochi capelli bianchi dritti in testa. Alcuni giuravano che aveva gli occhi rossi, altri che ce li aveva normali, e proprio per questo faceva ancora più paura. Perché era venuta a cercare proprio me? Magari aprivo lo stipo in casa di Nononna e dentro trovavo ancora la lucina. Dovevo cercare di dimenticarmi tutto, continuavo a ripetermi che erano solo invenzioni del paese. A Milano non avevo mai sentito una storia tanto stupida. Comunque, siccome ero troppo agitato, mi sono inventato una scusa con Nina e invece di tornare a casa sono andato a trovare zi’ Salvatore, perché mi metteva tranquillità. Viveva da solo di fronte ai nonni, in una casa su due piani con dentro una scala ripidissima. Quando era giovane era andato a fare l’emigrato in America, era partito con la nave e ad arrivare ci aveva messo due mesi. Sapeva fare il falegname, e aveva fatto quello. Poi si era sposato con una ragazza americana di origini italiane che viveva a Brooklyn. Dopo trent’anni e due figli maschi senza mai tornare, aveva ricevuto da Arigliana il telegramma che sua madre stava per morire, così era tornato. In aereo. Ma sua madre ci aveva messo mesi a morire, i mesi erano diventati due anni, e zi’ Salvatore a Brooklyn non c’era più tornato, non era riuscito a staccarsi la seconda volta da Arigliana. La moglie intanto era morta, i figli adesso sono grandi e hanno due bambini ognuno. Gli telefonavano per le feste comandate e per il suo compleanno. Gli mancavano tantissimo, e pure i nipoti, anche se li conosceva soltanto dalle foto; e poi gli mancava l’America. Solo che ormai era troppo vecchio e non poteva più andare da nessuna parte, la vecchiaia tiene il corpo incollato e la mente a zonzo. Zi’ Salvatore parlava sempre delle navi, era il suo argomento preferito. Ne aveva presa una sola in tutta la vita, quella che l’aveva portato in America, ma quel viaggio non se l’era mai dimenticato. Pensava sempre a quella nave che gli aveva regalato i sogni più belli, alle notti in cui sul ponte guardava le stelle e non sapeva cosa avrebbe trovato al suo arrivo: per la prima volta le stelle non erano più quelle di Arigliana. Gli sembravano più grandi, più luminose e più belle. Quella storia me l’aveva raccontata un po’ di volte.
Zi’ Salvatore si portava il lavoro di falegname scritto nelle mani, perché nella sinistra erano rimasti solo il pollice e il mignolo. Le altre dita le aveva lasciate a Bruclino, diceva sempre, e io e Nina, quando eravamo piccoli, per prenderlo in giro facevamo la cornetta del telefono o anche la bottiglia mentre si beve, perché quella era la forma della mano di zi’ Salvatore. Era un anno che non andavo a trovarlo, ma sapevo che aspettava me per scrivere lettere bellissime ai suoi due figli e alle loro famiglie, perché non sapeva scrivere. Come sempre, stava seduto davanti a casa e guardava il muro di pietre di fronte, il bastone era appeso alla maniglia della porta. Su quel muro c’era il cerchio di ferro dove un tempo si attaccavano gli asini sudati quando si tornava dai campi a fine giornata, per non farli entrare accaldati nei lammioni umidi. Adesso a quei cerchi ci sono legate le funi per stendere i panni. “Sei fatto grande,” mi ha detto zi’ Salvatore quando sono arrivato, però si vedeva che lui lo pensava veramente, e infatti mi ha trattato come uno adulto e mi ha porto la mano per stringergliela come se fosse tutto normale – per fortuna era la destra. Piano piano siamo entrati in casa e ci siamo seduti al tavolo. Sul mobile c’era ancora il giradischi che si era portato dall’America, era stato il primo ad Arigliana. In gioventù, grazie a lui la domenica il vicinato ascoltava Claudio Villa. Era appassionato di musica, come suo padre, aveva pure un pianoforte scassato, al piano di sopra, che chissà come c’era finito; da piccolo provava a suonarlo, poi... era tornato senza dita. Mi ha chiesto se volevo un caffè, ma non ero ancora così grande, chissà chi si credeva che ero. Dopo abbiamo preso carta e penna. Stare con lui funzionava, mi toglieva la paura. Lui mi diceva cosa voleva scrivere e io improvvisavo. “Scrivi che la pensione mi basta per campare, e anzi ogni mese riesco a mettere da parte qualcosa per comprare i regalini ai nipoti,” ha detto. “Scrivo tutto quello che mi dite.” A zi’ Salvatore davo del voi, perché era abituato così e se no ci rimaneva male. (Ogni tanto pure lui dava del voi a me, perché si sbagliava.) Allora ho scritto A soldi, qui non sono mai stato tanto prolifico. Pensa che la pensione stessa, io la uso solo per le spesucce quotidiane del più e del meno. Ho fatto una grande fortuna con queste gare che fa il mio cavallo Ringo Starr zi’ Salvatore tanti anni prima aveva un cavallo, ma adesso era morto e le vince tutte, e sono ogni volta molti e molti soldi. Ma soprattutto ho vinto alla lotteria e i soldi non so più dove metterli, sotto il materasso è già pieno.
Poi mi ha detto: “Scrivi che purtroppo qualcuno dei miei amici è morto, ma mi sono fatto un nuovo amico, che sei tu”. Io ho scritto: Qui non è tutto come prima, perché molti se ne sono andati a precederci nell’aldilà per sistemare le cose. Però ho un nuovo amico, si chiama Pietro ed è il nipote di zi’ Beatrice e di zi’ Nunzio, ed è il ragazzo più simpatico e bravo che abbia mai visto, e magari potrebbe andare d’accordo con i miei nipoti, se venissero qui a conoscerlo. Poi Pietro è molto bravo anche a scuola, ha tutti otto ed è stato promosso a pieni voti. Siamo andati avanti per un pezzo, ed è venuta proprio una lettera bella lunga. L’ho pure riletta in silenzio da cima a fondo, e tutto suonava benissimo. Prima di chiudere la busta zi’ Salvatore ci ha infilato qualche banconota, per far vedere che di soldi ne aveva da tutte le parti. L’ha leccata e mi ha chiesto di andare a imbucarla in piazza. Tutta quell’attività l’aveva stancato, si doveva coricare un po’. Per fortuna era talmente stanco che si è scordato di stringermi la mano. Allora me ne sono andato, e devo confessare una piccola cosa che ho fatto, una delle mie, perché ho fatto un taglio perfetto nel bordo della busta e ho sfilato una o due di quelle banconote, forse tre ma non di più, doveva essere stata tutta l’agitazione che, appena ero uscito da casa sua, mi aveva ripreso, avevo bisogno di fare qualcosa per mandarla via. Poi sono entrato al bar di Peppino e gli ho chiesto lo scotch. Ho riattaccato tutto per bene e ho spedito la lettera dall’altra parte del mondo. In America, addirittura. Chissà quanto tempo ci avrebbe messo ad arrivare.
7.
Prima di addormentarmi pregavo il Signore di non farmi più vedere la lucina e invece di portarmi in sogno una persona a cui volevo bene, perché una volta mamma mi aveva sognato, e io me lo ricordo benissimo che la mattina dopo, quando me l’aveva raccontato, io mi ero sentito qualcuno nella vita. Invece quella sera non riuscivo a levarmi dalla testa la lucina. La presenza della Menzasignor in quei giorni mi terrificava. Se Nina accendeva l’abat-jour a me veniva un infarto, perché credevo che fosse la mia lucina che mi veniva a prendere. Se aprivo il frigorifero, vedevo la lucina e mi mettevo a frignare in un angolo, se il treruote di Franco – il padre di Refè – metteva la retro, io vedevo la luce bianca e morivo dalla paura. Allora mi sono chiuso in bagno e ho parlato con mamma per un’ora. “Un vero uomo non può vivere tutta la vita sotto una minaccia,” ha detto lei, e mi accarezzava i capelli, anche se stavo sul cesso. Ci ho pensato un po’, poi le ho preso la mano. A me piaceva prenderle la mano, perché era morbida. “Se no è come se la Menzasignor mi avesse già preso,” ho risposto. “Invece sei ancora vivo.” Cavolo, quanto aveva ragione. All’improvviso tutto quel terrore mi ha fatto diventare coraggioso. “Grazie, ma’,” ho detto, e ho aperto la porta del bagno. Anche un solo minuto in più sarebbe stato dargliela vinta. Se dovevo morire, volevo deciderlo io. “Pi,” mi ha richiamato lei. “Che c’è, ma’?” “Ricordati: la paura è una bugia.” Ci ho pensato un attimo. “Okay.” E sono corso fuori dal bagno. “Non hai tirato l’acqua,” ha detto Nina, che era già dentro il letto. “Sì che l’ho tirata,” ho risposto, ma non era vero. Poi ho detto che dovevo andare da una parte. “Arrivo subito.” “E se muori?” Quella capisce tutto, altro che sorella minore. Quella è un
mezzo genio. È stata adottata, oppure sono stato adottato io. “Non muoio.” “Ma se muori cosa devo dire a Nononna?” “Dille che sono andato a dar da mangiare a Lupo, e che Lupo mi ha sbranato.” Nina ha sorriso. Lupo era impossibile che sbranava qualcuno, era troppo vecchio, aveva quasi vent’anni. “Va bene, torna presto però.” Sono sceso in cucina come un puma e da un cassetto ho preso una torcia elettrica. Poi sono risalito in camera, sono uscito sul balconcino e mi sono arrampicato usando i ganci della grondaia. Quando sono arrivato sul tetto di tegole sono saltato su quello della casa di fianco, poi mi sono calato giù per un’altra grondaia e ho raggiunto la scalinata di pietra che dava sulla strada. C’era un cancello che non aveva mai avuto un lucchetto. L’orologio nella piazza ha battuto le undici, in giro non c’era anima viva. Sono arrivato alla torre senza incontrare spiriti, era tutto buio. Alla base del bastione ho acceso la torcia e l’ho messa in bocca, perché le mani mi servivano per salire. Mi sono arrampicato fino a che la testa e la bocca non sono arrivate all’altezza della feritoia. Tremavo come un matto e stringevo gli occhi perché avevo paura. Poi piano piano li ho aperti. Lucine non ce n’erano. Ho guardato meglio. Niente. Allora mi sono sentito forte come Sandokan e tutti i tigrotti della Malesia messi insieme, anzi di più, come un leone vero, e ho deciso di entrare dalla feritoia come facevamo con Refè. La torcia era sempre salda in bocca e faceva tanta luce. Piano piano sono entrato, prima un piede, poi tutta la gamba, poi l’altro piede e l’altra gamba. In un attimo ero dentro. C’era puzza di piscio e di muffa. Ho preso la torcia in mano e ho fatto luce in giro. Al buio quel posto faceva ancora più paura, ma quanti ce n’erano ad Arigliana che erano entrati nella torre da soli, la notte? L’avrei raccontato a Refè e lui non mi avrebbe creduto. Allora gliel’avrei fatto vedere di persona. Quando puntavo la torcia sulle volte era pieno degli occhi luminosi dei pipistrelli. Da piccoli, con Refè avevamo scoperto che se non li disturbi, i pipistrelli fanno come se tu non ci sei. Poi ho sentito dei rumori. Mi è venuto un brivido dentro la schiena. Mi sono fermato. Era come un grande animale che si spostava. Ho girato la torcia in quella
direzione, ma non si vedeva niente. I rumori arrivavano dalle segrete, là sotto. Poi basta, non si sentiva niente, solo un gran silenzio. Allora ho ripreso a camminare finché all’improvviso non sono arrivati altri rumori: sempre quella specie di grande animale che si rotolava. In mezzo al pavimento c’era un buco, mille volte eravamo saltati giù da lì verso le segrete. Anche se mi faceva schifo per via del piscio, mi sono sdraiato per terra e ho guardato giù. Ho spostato la torcia a destra e a sinistra, ma là sotto di animali non ce n’erano. Qualcosa però c’era, vicino alle pareti. Ma non riuscivo a capire cos’era. Magari un animale, un cane o un gatto. Magari un topo. Allora ho messo la torcia tra i denti e mi sono calato, facendo forza sulle braccia: il dislivello era di un paio di metri. Lì c’era ancora più puzza. Non era solo piscio, era sudore. Sudore forte, come quando a Milanox ti passa di fianco un barbone. Ho illuminato bene. A terra c’erano due materassi anneriti e mezzi sfondati, alcuni libri (uno era aperto all’ingiù), avanzi di cibo, una ciotola piena a metà, un’armonica a bocca su una coperta bucata, vestiti ammucchiati in un angolo, il mozzicone di una candela. Forse era stata quella la luce, ho pensato. Forse ero salvo, forse non c’era nessuna lucina che veniva a prendermi. Doveva essere così. Mi sono sentito forte come un leone. Ero un leone. Ho illuminato ancora tutto intorno, con i piedi ho toccato la copertina del libro aperto. Era scritto in una lingua che non era la mia. Di rumori non ce n’erano più. E neanche di lucine. Però lì dentro qualcuno ci aveva vissuto. Aveva ragione mamma, la paura è solo una bugia. Ho guardato ancora un po’ in giro, ma non c’era nient’altro. E allora sono tornato a casa. In camera, Nina dormiva. Sono sceso in cucina e prima di rimettere la torcia nel cassetto l’ho accesa. Appoggiata sulla credenza c’era una testa che mi aveva sempre fatto un sacco di paura, intagliata nel legno. Sotto c’era scritto DUX. BENITO MUSSOLINI. Quel nome l’avevo già sentito a scuola, anche se non mi ricordavo chi era. Sapevo solo che era uno violento. Però quella faccia era troppo arrabbiata, ogni volta che passavo di lì la guardavo perché prima o poi doveva cambiare. Invece non cambiava mai.
Mi sono avvicinato e l’ho toccata. Eppure secondo me quando nessuno la guardava sorrideva. Sono risalito in camera, e Nina continuava a dormire con il lenzuolo tirato su fino agli occhi. Russava anche un po’. Ho fatto un paio di colpi di tosse perché volevo che si svegliasse. Fa sempre bene parlare con qualcuno, dopo un atto di coraggio. “Sei tornato?” ha chiesto, ma si capiva che stava ancora mezzo dormendo. “Sì.” “Che ore sono?” “È passata mezz’ora.” “Come sta Lupo?” “Bene. Dorme.” Ho aspettato un po’, ma lei di domande non me ne faceva. Allora ho detto “parliamo?”. Solo che lei doveva essere proprio stanca, perché si era riaddormentata, e quando dormiva era di una bellezza unica, aveva la stranezza che teneva gli occhi un po’ aperti, e infatti fin da piccola quando voleva far finta di dormire li chiudeva come fanno tutti e noi la scoprivamo subito. È una cosa che sappiamo solo io e mamma, no, anche papà la sa, Nina non la sa perché si spaventerebbe, se sapesse che dorme come una morta. Però è proprio quando Nina è più strana che le voglio ancora più bene, perché le cose normali sono quelle di tutti, e invece lei è Nina. E se mi ero trasformato in un leone era anche perché c’era lei che dormiva esattamente come una bambina deve fare.
8.
Avrei voluto dirlo a Refè, però un segreto quando viene raccontato si scioglie come il gelato che mangiavamo con Nononna dopo la pennichella, seduti sulla scalinata di casa. Allora sono uscito e sono andato alla mia nave, era l’unica cosa che potevo fare. Bisognava prendere alcuni vicoli, poi si arrivava alla piazzetta con la fontana, dove viveva il giudice Lopiano. Eccoli: sul muro di una casa disabitata spuntavano alcuni ferri arrugginiti. La nave era ancora parcheggiata lì, dall’anno prima non si era mossa. “Una nava,” aveva detto Refè guardando il muro, la prima volta che eravamo passati da lì, e quella infatti era la mia nave, e ci potevamo salire solo io e mamma. Neanche Refè, neanche Nina, solo io e mamma. “Mamma, dove andiamo?” le ho chiesto. Avevo voglia di portarla a fare un bel giro. “Andiamo a Parigi.” Quella città le piace tantissimo, quando si fissa con una cosa non c’è verso. Dice che lì c’è tutto quello che una donna può sognare, anche se non c’è mai stata. “Ma’, io voglio andare in Sicilia, ad Aci Trezza. È un posto bellissimo, dove succedono un sacco di cose magiche.” La professoressa ci aveva parlato dei Malavoglia, ed era da quel giorno che aspettavo di andarci, perché la Sicilia è un’isola di streghe: ci sono quelle cattive, ma anche quelle meno cattive. “Ma a te piacciono i leoni...” “Io sono un leone, ma’.” “Allora dobbiamo andare in Malesia, dentro la foresta tropicale. Non c’è posto più magico. È lì che vive Sandokan, che ti piace tanto. Lui e i suoi tigrotti della Malesia.” Era vero, a me Sandokan piaceva un sacco, perché non aveva paura di niente, ed era l’unico uomo sulla terra davanti al quale le tigri abbassavano lo sguardo. I leoni non si sa. “Voglio andare in Malesia! È lontano?” “Lontanissimo.”
A me i viaggi lontani piacevano più degli altri, perché bisognava arrampicarsi sugli alberi maestri per controllare le vele, nell’oceano il vento soffia fortissimo, e se serviva bisognava pure fare qualche nodo in equilibrio, e rimanere aggrappato là sopra per tanto tempo, come un vero lupo di mare. Mentre navigavamo, dalla stiva è sbucato Canetto, e si è messo ad abbaiare forte come suo solito; poi ha cominciato a ringhiare e a mordermi un polpaccio. Quando siamo arrivati in Malesia, siamo scesi su un’isola piena di foreste, laghi, alberi e animali di tutti i tipi, e ci ha seguiti pure Canetto, anche se io lo avrei voluto lasciare in alto mare. C’erano pappagalli giganti rossi e gialli. C’erano anche un sacco di leoni. Visti da vicino facevano paura perché erano molto grandi, e poi erano selvaggi. Abbiamo fatto due passi in giro, mamma è andata verso un branco che stava sdraiato all’ombra, erano belli tranquilli. Poi ha detto “è proprio vero che questo è un posto magico. Abbiamo fatto bene a non andare a Parigi”. “È il posto più magico che ho mai visto,” ho risposto io, e lo facevo per coprire la voce di Canetto, che non la smetteva un attimo di abbaiare e di farmi sentire i denti. Poi mamma ha capito che me ne stavo un po’ alla larga dai leoni. “Vieni, Pi, devi venire a vedere. Non sono cattivi.” Allora è andata a parlare con uno di loro. E mentre parlava lo accarezzava, e il leone faceva le fusa e la leccava. Mamma si è girata e mi ha chiamato di nuovo. Io ero un po’ sospettoso, ma poi sono andato, al massimo il leone si mangiava lei, o magari mi toglieva di torno quel cavolo di cagnolino. Ho provato anch’io ad allungare la mano, e lui non me l’ha mangiata. Invece l’ha leccata. Allora mi sono messo a giocare con lui, e lui ha chiamato i suoi piccoli, e poi quelli hanno chiamato anche dei piccoli di tigre, e abbiamo iniziato a giocare tutti insieme. Uno voleva fare il furbo e mi voleva attaccare, ma non come Canetto, perché aveva dei denti che non finivano mai. Allora mi sono avvicinato e gliel’ho fatta vedere, per poco non me lo mangiavo in un boccone. Quando Canetto mi ha visto si è fermato sbalordito, poi ha ricominciato a mordere. Finché ho sentito una voce, ma lì per lì non ci ho fatto caso. Però la voce insisteva, e da un vicolo è spuntato Refè. Mi chiamava. Si è avvicinato e si è piegato sulle ginocchia. “Che fai lì accucciato a terra?” ha detto, e intanto mi abbracciava. Io non lo so che gli era preso a quello lì, non l’avevo mai visto così affettuoso, ero a fare la mia missione in Malesia e mi veniva a rompere. “Ma che hai fatto? Perché piangi?” Ha tirato fuori un fazzoletto dalla tasca, chissà che schifo che era, secondo lui
dovevo pure toccarlo. “To’, pulisciti gli occhi e soffiati il naso,” ha detto. “Sembri una donnina, con tutte ste lacrime.” Quello era tutto matto. Ma da dove gli uscivano ste trovate io non lo so. Comunque, per farlo contento, mi sono alzato in piedi e mi sono pure soffiato il naso e asciugato gli occhi con il suo fazzoletto lercio. Refè mi ha guardato in un modo un po’ strano, come se ero un bambino ritardato. “Io vado al torrente,” ha detto piano, mentre si riprendeva quello schifo di fazzoletto. “Vu’ veni’?” Mi dispiaceva andare via così dalla Malesia. Mi sono guardato attorno, e i leoni erano ancora tutti lì, ed erano un po’ dispiaciuti pure loro. Canetto però aveva smesso di abbaiare. Proprio adesso che ci stavamo divertendo. Poi ho guardato Refè. Allora ho salutato mamma e sono andato. Anche quella volta, ci ho pensato quando eravamo già per strada, mi ero dimenticato di chiederle di rispondere a quella domanda. Ma è anche vero che Canetto faceva tanto di quel baccano che la domanda in quel momento non me la ricordavo nemmeno. Quando siamo arrivati al torrente c’era ancora meno acqua dell’anno prima, era pieno di massi secchi. L’unica cosa che quel serpentone ancora faceva era segnare il confine tra le terre morte e quelle vive. Ci siamo messi all’ombra di una pianta a fumare una sigaretta. Refè ogni tanto fumava, di nascosto, e io fumavo con lui. Poi Refè si è accucciato, ha alzato il braccio tra i rami e ha indicato lontano. C’era una coppia, sdraiata su un masso più grande degli altri, si abbracciavano e si muovevano in modo strano. Erano mezzi nudi. Mi sono sentito imbarazzato, una cosa così non l’avevo mai vista, quelli facevano dei versi troppo strani. Refè ha mosso il polso avanti e indietro. “Stann’ scupann’,” ha detto, e ha mostrato i dentoni. “Mettiamoci qua a guardare.” Non mi piaceva, mi sembravano solo due che facevano una cosa schifosa, e infatti stavano nascosti. “A me non mi va,” ho risposto. “Tu si’ ricchion’,” ha detto Refè. “E quando ti ricapita così vicini?” Ma io me ne sono andato a fare un giro. Un vecchio cartello di lamiera bucato da pallottole di fucile diceva FIUME OLMO. In quel torrente papà ci aveva perso le scarpe in gita scolastica, alle
medie, quando era grande come me. Se le era tolte, insieme ai pantaloni e alla camicia, e si era infilato nel torrente per fare lo sbruffone. Le scarpe le teneva in alto con la mano, perché aveva paura che gliele rubavano, ma c’era corrente, lui aveva cominciato ad agitarsi e gli erano sfuggite. Suo padre l’aveva frustato con la cintura, un male che per tre giorni non si era potuto sedere. Mi sono girato verso Refè, e si vede che si era annoiato, perché si sbracciava. Ho pensato che potevo raccontargli il mio segreto, chissà chi era stato a vivere dentro la torre. Ma, mentre iniziavo a parlare, Refè ha detto “voglio vedere chi sono”. Ha preso un sasso e l’ha lanciato. Però è caduto lontano. Ne ha scelto uno più grande e l’ha tirato più forte. L’uomo ha alzato la testa per il rumore. “Non so chi è,” ha detto Refè. “È forestiero.” Poi quello deve averci visto e si è tirato in piedi, si è chiuso i pantaloni e ha cominciato a correrci dietro. Siamo scappati. Nuotare, non si poteva nuotare. Arrivato a casa ho preso la torcia, l’ho infilata in tasca e sono tornato alla torre. Io una luce là dentro l’avevo vista, e dato che non era la Menzasignor volevo sapere chi era. Col sole ero molto più coraggioso, non ci avevo mai fatto caso al coraggio che il sole ti dà. Quando sarò maggiorenne mi farò un tatuaggio grande con un bel sole colorato. L’aria era fresca. Ho controllato che nessuno mi vedesse, non volevo lasciare tracce, ad Arigliana le notizie volano: se fai una cosa che non devi fare, è sicuro che quando torni a casa tuo padre ti tira uno schiaffo. Dietro la torre mi sono tolto le scarpe per fare meno rumore possibile: se c’era qualcuno non mi doveva sentire. Le ho lasciate là sotto, vicino al muro della chiesa madre. Sono entrato e ho aspettato che gli occhi si abituassero al buio. Dalle feritoie entrava abbastanza luce per vedere anche senza torcia. Questa volta non mi volevo calare dal buco centrale, dovevo fare pianissimo. Mi sono avvicinato ai gradoni che scendevano alle segrete. C’era sempre quella puzza di piscio e di sudore, mista a cibo andato a male e a muffa. Mi veniva da vomitare. Poi mi sono girato, ed è stato a quel punto che me lo sono trovato davanti. Era più alto di me. Ho fatto un salto all’indietro, per lo spavento ho gridato, senza rendermene
conto ho afferrato il sacchettino che tenevo legato al collo, e mi sono trovato attaccato alla parete. La presenza ha alzato una mano. Non sapevo cosa fare, l’unica cosa che mi è venuta è stata di stringere la torcia nella tasca. Poi quello ha alzato pure l’altra mano. Allora ho acceso e l’ho illuminato in faccia. Lui ha strizzato gli occhi e si è girato spaventato, la luce lo aveva ferito. Ho abbassato il fascio e si è voltato, ma la mano la teneva sempre davanti alla faccia. Poi, lentamente, l’ha spostata. Era un ragazzino. Aveva i capelli scuri, gli occhi però erano chiari, perché quando ha tolto la mano brillavano. “No sparare,” ha detto. Aveva l’accento straniero, ma parlava la nostra lingua. “È solo torcia, no pistola,” ho detto io, parlando come un indiano pellerossa. Poi sono arrivati dei rumori dal fondo. Ho illuminato in quella direzione, e ho visto. Nello spiazzo c’era tutta la famiglia, o almeno un gruppo di uomini e di donne, seduti a terra, su un grande telo aperto e su un materasso. Erano degli stranieri. E li avevo scoperti io. Un uomo solo stava in piedi e si toccava la testa, una camicia bianca – diciamo bianca – gli usciva dai pantaloni. Tre donne con un braccio si stringevano le ginocchia e con l’altro si proteggevano gli occhi dalla luce, avevano le teste coperte da scialli, come Nononna in inverno oppure quando usciva per andare al forno. Altri due uomini tenevano le braccia davanti agli occhi. Allora ho spostato la luce, loro hanno scoperto i visi e ho visto la faccia della fame. Mamma mia, che brutta. Una cosa più brutta al mondo non l’avevo vista mai. Erano umani, ma sembravano scheletri, gli occhi gli uscivano fuori dalle orbite. Mi avrebbero mangiato tutto intero, e non avrebbero scartato neanche le ossa. E manco le scarpe, se ce le avessi avute. Anche se il coraggio è una dote che non mi manca, quelli erano in tanti, e mi guardavano come se mi volevano sbranare. È giusto essere coraggiosi come leoni, ma bisogna pure essere furbi come volpi. Allora mi sono voltato e sono scappato. Tenendo il sacchettino ben stretto nel pugno, ho corso più veloce che potevo.
9.
Era lunedì, e come ogni lunedì nonno cenava con i suoi amici al Circolo sociale, così don Eustachio veniva a mangiare da Nononna e le diceva per tutto il tempo che una messa non le costava niente. Nononna in chiesa non ci era mai andata, aveva una religione tutta sua: a lei piaceva solo la Madonna Nera perché era diversa dalle altre Madonne con le guance rosa. Nonna faceva le croci sul pane e guariva le persone col malocchio, anche se ogni tanto pregava da sola: l’avevo sentita recitare l’Ave Maria mentre lavava i piatti, o l’Eterno riposo se moriva qualcuno. La verità è che io non avevo neanche fame, dopo quello che avevo visto nella torre. Non sapevo cosa fare. Don Eustachio era grasso, sudava e veniva da Matera. Beveva litri di vino e mangiava come un bue. Non smetteva un attimo di parlare, e parlando sputacchiava. Appena ha abbassato lo sguardo sul piatto, Nina ha gonfiato le guance e ha fatto gli occhi da pesce, per imitarlo, molliche sputate comprese. Nononna non si è accorta di niente. Di solito queste cose di Nina mi facevano sbellicare, e nonna ci scopriva dopo un minuto. Invece era come se Nina non aveva fatto niente; mi guardava e non capiva cosa avevo. Don Eustachio s’è mangiato due piatti di orecchiette col sugo di capretto e ha chiesto la grazia di portarsene a casa altri due, per il giorno dopo. Per il caffè sono passati Ninuccio, il sindaco del paese e nipote diretto di Nononna, e il giudice Lopiano, l’uomo preferito da nonna in tutto il mondo: lui e la sua famiglia vivevano in un palazzo baronale, e per lei non c’era casa più bella nell’universo. Nonna allora ha tirato fuori il vino buono, e don Eustachio era felice come un neonato. I segreti però friggono e, anche se non li vuoi dire, l’odore si sente da lontano. Avevo deciso che non l’avrei mai detto ai miei amici. Domenico l’avrebbe gridato in piazza davanti a tutti, Refè sarebbe di sicuro entrato a vedere. Neppure a mamma volevo dirlo, si sarebbe arrabbiata perché ero andato nella torre e poi mi metteva in castigo.
Ma Nina sentiva l’odore del fritto e mi guardava da lontano. Mi controllava e non parlava. Però era più forte di me, non ce la facevo a tenermi tutto dentro. Quella cavolo di Nina poi, con i suoi occhi a pertusidd’, continuava a guardarmi, qualunque cosa facevo. Magari avevano pure bisogno di aiuto. Allora la sera, a letto, mi sono deciso e gliel’ho detto. Nina stava sdraiata su un fianco e mi ascoltava. Mi aspettavo chissà quale reazione, invece lei l’ha presa come una cosa normale. “Non sapranno dove andare,” ha detto. “Per stare a vivere in mezzo a quello schifo devono essere proprio costretti.” Un po’ ci sono rimasto male, ma Nina è fatta così, dà soddisfazione solo alle cose che decide lei, non a quelle che gli altri si aspettano. Allora insieme abbiamo stabilito di dirlo a nonna, e il giorno dopo sarebbe stata l’occasione giusta: Nononno andava insieme a Franco il papà di Refè a raccogliere i vavalici, le lumache, che ad Arigliana si mangiano col brodo. Eravamo seduti a tavola e io ero un po’ agitato. Non sapevo come dirlo, e quella scema di Nina non era di nessun aiuto, si godeva la scena e basta. Allora ho adottato la tattica che uso nelle interrogazioni, anche se non è detto che funzioni, dati i risultati, ma una migliore non la conosco. Ho chiuso gli occhi e ho lasciato che le parole uscissero da sole. “Nonna, dentro la torre c’è nascosta una famiglia di stranieri puzzoni, le donne hanno lo scialle sulla testa, gli uomini sono tanti e stanno tutti seduti per terra e non dormono mai perché c’è troppa puzza, e poi non mangiano da almeno un anno, devi vedere le facce che hanno.” Quello dei puzzoni l’avevo aggiunto per far ridere Nina, che a queste cose delle puzze era sempre sensibile. Però lei non ha riso, era troppo concentrata su nonna. Nononna non si è scomposta, ha continuato a guardare il piatto. Stessa tattica della nipotina. “Che dici?” ha chiesto, mentre infilzava i cavatelli. Aveva sentito benissimo, invece. Anzi, aveva già capito tutto. “Dentro la torre c’è una famiglia tutta intera che ci vive.” “E quale famiglia?” Nonna era troppo brava a fare finta di niente, ma io ero ancora più bravo di lei. “Una famiglia di stranieri, Nono’. Sveglia!” Nina finalmente si è messa a ridere.
“E tu come fai a saperlo?” “Sono entrato.” “E come sei entrato?” Nonna mi stava facendo perdere la pazienza con tutte quelle domande, mi ero già pentito di averle svelato il mio segreto. Si è bevuta un sorso di vino, ma si vedeva che non le andava e che lo faceva per non darmi corda. E infatti non parlava più. Si è messa pure a tagliare il pane, era troppo furba quella nonna. Non volevo svelarle che con Refè ci entravamo tutti gli anni da quando eravamo piccoli, però Nina faceva gli occhi come se dovevo parlare, e allora ho ceduto. “È pieno di feritoie, da lì un bambino ancora ci entra.” Nonna ha riflettuto. “E con questa famiglia... Ci hai parlato pure, con questa famiglia?” “Solo col ragazzino.” Nononna voleva strapparmi un sacco di informazioni senza farmene accorgere. Ma gliela facevo vedere io, adesso sganciavo la bomba. “Mi ha detto pure di non sparargli.” Ta-taa. E invece lei è rimasta calma. “Ah... E quindi tu avevi una pistola? Ma bravo!” Col pane tirava su il sugo dal piatto. Impassibile come se fossi un bambino che diceva un sacco di cretinate. “Avevo una torcia!” “E gli sparavi con la torcia?” “Gli ho ferito gli occhi.” Poi nonna non ha detto più niente, non c’è più stato verso di farla parlare. Nina mi guardava e si vedeva che voleva dire la sua, perché a lei piaceva sempre aggiungere qualcosa a quello che dicevo io, ma questa volta non sapeva cosa. C’era un silenzio tremendo. Nononna quando vuole essere misteriosa ti fa veramente preoccupare, perché sembra su un altro pianeta e non sulla terra. Abbiamo sparecchiato. Poi Nononna mi ha detto “per fortuna che tuo nonno oggi non c’è. Se no, te la faceva ricordare”. Io e Nina zitti zitti abbiamo messo i piatti nel lavandino. Poi, per la prima volta da quando la conoscevamo, Nononna, anziché salire i gradini per andare nella sua camera a riposare, ha preso il portone ed è uscita. Abbiamo sentito gridare, e chiamare i nostri nomi, allora siamo usciti di corsa perché pensavamo chissà che, e invece era solo zi’ Salvatore immobile sulla sua
sedia, col bastone appoggiato contro il muro. Forse aveva visto Nononna che usciva di corsa e voleva sapere cos’era successo. Mi sono preso paura, perché ho pensato: ha scoperto che gli ho fregato i soldi, e mo’ me la fa pagare, sto vecchio fissa-muri, ed è stato brutto perché mi sono sentito come un ladro. Quando ha visto che stavo andando da lui, zi’ Salvatore ha detto “com’amma fa’? Com’amma fa’?” muovendo avanti e indietro le mani unite, che era il suo modo di salutarmi da quando ero piccolo, lo diceva tutte le volte che mi vedeva. E che ne sapevo io di come dovevamo fare? Però aveva veramente scoperto tutto, perché Carmine il postino aveva ritirato la busta, si era accorto dello scotch ed era andato da lui: ad Arigliana nemmeno i gatti si fanno i fatti loro. Zi’ Salvatore non era arrabbiato, anche se mi ha detto che non è giusto fregare un vecchio. Ma si è reso conto che mi sentivo un verme, allora mi ha abbracciato stretto per un po’. E poi ha domandato perché Nononna era uscita così di corsa. Io ho detto che aveva una cosa urgente da fare per la bottega, anche se quella era un’altra piccola bugia. Però, per mettere le cose in pari, zi’ Salvatore mi ha chiesto di accompagnarlo a comprare il sale dal tabaccaio, che era rimasto senza e non ce la faceva neanche a fare le cose più elementari come camminare e stappare il vino. Nina è andata a casa. Allora ho preso il vecchio sotto braccio e l’ho fatto alzare, e mentre camminavamo ha detto che non bisognerebbe mai rimanere senza sale, perché tutto quello che salva nella vita ha dentro il sale. E ha detto proprio “quello che salva”, e io ho capito subito che lo stava dicendo per me, perché devo confessare che da quando mamma aveva traslocato, e io avevo trovato quel moncherino di foto, ogni tanto mi guardavo in giro per vedere se trovavo l’altra metà. Non importa dov’ero: io guardavo. Magari c’era, magari l’aveva lasciata lì per me così, con una delle sue frasette scritte, mi rispondeva alla domanda che le avevo fatto, che ogni volta che le parlavo c’era Canetto che faceva baccano e quella domanda andava a finire che me la dimenticavo. “E lo sai quali sono le cose che hanno dentro il sale?” ha chiesto zi’ Salvatore mentre camminavamo sotto braccio, appoggiandosi dall’altra parte al bastone. Ci ho pensato, ma era facile. “La pasta e il sugo. Le orecchiette e la carne di nonna. Nonno dice sempre che ne mette troppo poco, anche se ha la pressione alta.” “Ma che dici, piccoletto?” Quelli che mi chiamano così di solito li odio tutti, ma zi’ Salvatore no, lui poteva dire tutto quello che voleva. “Ascolta bene qua. Le cose che hanno dentro il sale sono il sudore, le lacrime e il mare.”
“Dove l’avete sentita questa, zi’ Salvato’?” Ma gliel’ho chiesto più per gentilezza che altro, dopo tutto gli avevo appena fregato dei soldi. Lui ci ha pensato. “Non me lo ricordo, piccolo Billy.” A volte mi chiamava con il nome di suo nipote, ma io non ci facevo caso. “L’ha detto qualcuno, ma sono troppo vecchio per ricordarmi il suo nome, e comunque chi se ne frega chi l’ha detto. Mo’ l’ho detto io.” Quel vecchio aveva un sacco di scatole accumulate nella testa: si vede che ogni tanto ne cadeva una e qualche parola gli finiva nella bocca. Però quella storia del sale era bella. Comunque, mentre in silenzio io e zi’ Salvatore tornavamo a casa con la confezione di sale, ci ho pensato, e quella cosa l’avrei pure raccontata a Nina. Le lacrime è vero che servono. Un giorno io, Nina e papà vedremo cosa mamma ci sta preparando, e sarà una sorpresa bellissima, perché se no non ci metteva tanto. Non ci metteva tanto nemmeno la vigilia di Natale, quando preparava il cenone per tutta la famiglia. Sarà la cosa più bella della storia. Il mare sì, sarebbe stato bello. Ma quella parte con Nina era meglio che la saltavo, se no diventava triste, perché a lei il mare piace proprio molto, più che alle persone normali, anche se ci siamo andati solo due volte in tutta la vita. Però più ci pensavo e più non capivo il sudore. Quando sudavo non serviva a niente, poi puzzavo e mi dovevo lavare, e a me di lavarmi non mi andava; a parte ad Arigliana perché c’era Felce azzurra della bottega, e io con Felce azzurra mi sarei lavato pure un giorno sì e un giorno no.
10.
La notizia si era sparsa velocemente, anche nei paesi vicini. Tutti i giornali locali parlavano solo degli stranieri trovati nella torre di Arigliana. Egidio il giornalista era diventato una specie di celebrità, tutti lo chiamavano per farsi raccontare più cose possibile di questa famiglia di invasori: lo cercavano gli altri giornali, le radio, era andato perfino alla televisione, insieme al sindaco e a zi’ Rocco, che tutti si sono chiesti che c’entrava là in mezzo. Ero diventato un eroe, tra i bambini di Arigliana, perché avevo scoperto gli stranieri. Refè quasi non mi rivolgeva più la parola: è fatto così, se una cosa non la fa lui per primo fa finta che non esiste. Ma con questa era impossibile, era troppo grossa. Una famiglia di stranieri ad Arigliana non si era mai vista, nei secoli e secoli, le persone da lì se n’erano solo andate a fare gli emigrati, come mamma e papà. Domenico era esaltato, e pure Enzuccio, e non vedevano l’ora di vedere gli stranieri in carne e ossa. Anche Pasquina non stava nella pelle, quella bambina scoppiava da quanta vita aveva dentro. Le gemelle Lopiano, invece, come sempre rimanevano composte ed educate, non dicevano mai una parola fuori posto. Io non lo so Nina come faceva a sopportarle. Refè ogni tanto, solo per fargli un dispetto, si metteva a imprecare con quella sua testa pelata: loro diventavano rosse e poi scappavano via. Noi allora ci buttavamo per terra dalle risate. Quella che rideva di più, però, era sempre Pasquina. La prima cosa che Nononna aveva fatto, dopo che le avevo raccontato tutto, era stata andare a parlare col prete. Come quelli che ad Arigliana avevano più di ottant’anni, nonna sapeva di un passaggio sotterraneo che dalla chiesa conduceva alle segrete della torre. Nononna lo sapeva e io no! Che una vecchia di ottant’anni dovesse svelarmi un segreto così importante era stata una sconfitta. Poi, aveva smosso tutte le acque che si potevano smuovere. E così tutti, in paese e nella regione, hanno scoperto che gli stranieri erano stati nascosti là sotto per quasi cento giorni, li aveva protetti don Eustachio. Quando Nononna ce l’ha raccontato, io e Nina eravamo senza parole. Non era possibile. Don Eustachio? Quel prete grasso con la passione per le orecchiette e
le polpette doveva avere qualche super-potere, se era in grado di fare una cosa così grave e tenerla segreta a tutti, per più di tre mesi. Abbiamo capito anche che fine facevano i piatti pieni che ogni lunedì si riportava a casa. Don Eustachio li aveva trovati una mattina prima dell’alba, erano in sette e camminavano in fila indiana al bordo di una statale deserta – lo zio era davanti, la nonna in fondo. In mezzo tutti gli altri. Erano scappati dal loro paese, e si erano persi per le statali della Puglia. Volevano andare verso Nord, andare via dall’Italia, ma non sapevano la strada, e neanche come fare. Camminavano e basta. Il prete stava tornando da Bari con il furgoncino della parrocchia di Matera, aveva accompagnato al mare un gruppo di disabili. Si era fermato, li aveva caricati e poi li aveva fatti mangiare e bere al primo bar, perché stavano morendo di fame e di sete. Un po’ di italiano lo parlavano. Allora don Eustachio li aveva fatti salire sul furgoncino e li aveva portati fino ad Arigliana. Era notte, erano in sette, e la sua casa è piccola. Non sapeva cosa fare. Sapeva solo che nessuno li avrebbe voluti. Un posto dove andare gli stranieri non ce l’avevano, e con loro c’erano pure delle donne, una vecchia e un bambino. Così aveva pensato di metterli dentro la torre. E ogni tanto si era ricordato di portargli qualcosa da mangiare e da bere. Era finita che erano rimasti lì per cento giorni. Chiusi come topi. Dopo aver parlato con don Eustachio, nonna era andata da suo nipote Ninuccio, il sindaco, e gli aveva riferito tutto per filo e per segno. Il sindaco e il consiglio comunale allora avevano deciso che quella famiglia di sette persone doveva lasciare la torre. Non era igienico. C’era anche un bambino, con tutta quell’umidità c’era il rischio che gli venissero i reumatismi. Poi avevano indetto un consiglio comunale straordinario, aperto a tutta la cittadinanza, per decidere insieme cosa fare con quegli stranieri. Già dalla mattina, ad Arigliana tutti fremevano e andavano di corsa. Di tempo da perdere per una volta non ce n’era, che a mezzogiorno, prima del consiglio, c’era uno spettacolo a cui nessuno voleva mancare. Noi ci eravamo dati appuntamento sotto casa di Domenico e Enzuccio (che anche se erano cugini vivevano nella stessa casa, una famiglia al piano di sopra e una a quello di sotto). Mentre le campane rintoccavano le dodici, nella piazza della torre era radunato
tutto il paese. C’erano anche un sacco di forestieri dai paesi vicini che avevano sentito la notizia e volevano vedere con i loro occhi. La gente stava così accalcata che era come quando passa la banda per un funerale: siccome non ci si può schiacciare su quelli che suonano, bisogna spostarsi sui gradini o dentro le case. Quello scemo di Domenico si era arrampicato sul balcone della casa di Nino il farmacista, e per rompere le scatole a Refè ogni tanto gli sputacchiava in testa. Proprio mentre suonava l’ultimo tocco di campana, neanche l’avessero fatto apposta, gli stranieri sono usciti dal portone della chiesa. Uno a uno. Piano piano, strisciando i piedi. Sembravano lumache. Come se a ogni passo ci fosse un burrone. Noi li guardavamo dall’alto come fanno le aquile. Camminavano uno dietro l’altro, lenti, in processione. Tutti insieme, nella piazza, li abbiamo contati sottovoce, ma la somma si è sentita eccome, erano come sette tuoni: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette. Sette scheletri, gente così magra non l’avevamo mai vista. Sembravano gli uccellini malati e in fin di vita che ogni tanto Nononna riportava a casa. Gli stracci che avevano addosso gli pendevano dalle spalle. Davanti, per primo, c’era l’uomo che sembrava più forte. L’ultima era una vecchia che strisciava e si lamentava, faceva fatica a reggersi in piedi. Con un braccio, tutti si riparavano la faccia e gli occhi dalla luce. Erano brutti e sporchi, le teste basse, le spalle curve. Tenevano la schiena piegata in avanti, un po’ facevano pena. E poi puzzavano che si sentiva da lontano. Era come se si fossero cacati sotto. Gli uomini cercavano di sembrare normali, ma non ci riuscivano. Le donne si trascinavano, i veli in testa, le gonne lunghe. La più giovane tirava su col naso, stava piagnucolando. La seconda aveva una scarpa sola, l’altra l’aveva persa chissà dove, la coperta che portava addosso strisciava sulle pietre della strada. La più vecchia aveva le calze nere, però erano strappate, piene di buchi. Si vedeva che voleva fare finta che tutto andava bene, ma sembrava una tartarughina. Uno degli uomini era a piedi nudi: le unghie erano lunghe e nere. Ognuno stringeva in una mano un sacchetto di plastica con le sue cose, e con l’altra si riparava gli occhi. Solo il ragazzino era diverso: invece del sacchetto, aveva un libro e una specie di quadernone rosso. “Paiono mazze di scope vestite,” ha detto Refè. Io l’ho guardato per ridere insieme a lui, ma lui non mi ha considerato. “Oppure fantasmi,” ha aggiunto Domenico, dal balcone.
“Fanno schifo,” ha detto Enzuccio. Erano neri di sporco in faccia, sul collo, sulle braccia. Ormai erano circondati dalla gente del paese. Intorno a loro c’era qualche metro di vuoto, poi era una massa che li fissava. Ho pensato chissà come si vergognavano, ma più loro volevano sparire, più il paese non gli staccava gli occhi di dosso. Volevamo vederli in faccia. Col braccio davanti non riuscivamo a capire se erano come noi oppure diversi. La piazza era in silenzio. Non si muoveva niente. Se uno schioccava la lingua si sentiva, giuro su Dio. Tutto era immobile, fermo ad aspettare. All’improvviso il primo uomo ha alzato il braccio. Così tutti l’abbiamo visto. Il viso era scavato come un teschio, sembravano le ossa che c’erano in fondo alla chiesa madre. Gli occhi erano cerchiati di nero, sparivano dentro la testa. Però era come noi, era una persona normale. Allora qualcuno ha tirato un sospiro, e finalmente è ricominciato il mormorio. “È normal’,” ha detto Refè. “È tal’ e qual’ a nui’...” Era un po’ deluso. “E che ti aspettavi?” ha risposto Domenico da sopra al balcone, ma faceva lo spaccone, perché nemmeno lui sapeva cosa aspettarsi, e aveva avuto paura che fossero chissà che. “Mica so’ marzian’.” Comunque era veramente come una persona normale, anche se era uno scheletro, poteva sembrare uno di Galviano, o al massimo di Rutulano. Ma l’uomo ha dovuto subito rimettersi il braccio sugli occhi, perché era accecato. Dovevano entrare in Comune, che era in piazza, a parlare col sindaco. Da dove stavamo sentivamo i commenti delle persone. “Sono più poveri di come eravamo noi,” ha detto una signora con i vestiti da campagna, di fianco a noi. Non mi ricordavo chi era, anche se l’avevo vista tante volte. “Fanno schifo.” “Zi’ Conce’, buongiorno,” l’ha salutata Pasquina. Zi’ Concetta aveva l’aria sospettosa, li guardava come criminali. Poi si è girata e ha sputato quello che stava masticando: era la buccia di un fico, impastata e verdognola. In una mano ne reggeva cinque o sei, ha fatto segno a Pasquina se ne voleva uno. Pasquina sottovoce ha detto “seee, manc’ se morio”, e Nina si è messa a ridere. Zi’ Concetta portava un fico alla bocca, lo masticava e poi sputava la pelle. Scuoteva la testa. “E che è? Noi non eravamo così. Questi fanno schifo.” “È tornata appost’ da fòr,” ha detto Domenico con aria di superiorità. Zi’
Concetta era sporca di terra, aveva il collo bruciato dal sole ed era sudata, sulla fronte e sotto le ascelle, era venuta dai campi per vederli. Refè lo ha guardato storto. Anche lui era tornato apposta. Io gli ho sorriso, per dirgli di lasciarlo perdere. Ma Refè mi ha mandato a quel paese. “A te non ti voglio parlare. Dovevi imparare a farti i fatti tuoi,” ha detto. A un tratto si è alzata una voce potente, così abbiamo guardato in alto, verso il balcone del palazzo del Comune. Infatti là sopra c’era un uomo affacciato che guardava la scena di questi disgraziati in processione con gli occhi feriti dal sole. Quell’uomo era zi’ Rocco. L’avvelenatore di terre. Da lì dove eravamo incuteva timore, sembrava un gigante. Era la prima volta che lo vedevo bene, ed era brutto, pareva la testa di Benito di Nononno, pelato e arrabbiato, con il naso aguzzo come un’aquila, ma ancora più terrificante perché era vivo. Si è alzato un mormorio generale, non si capiva più niente. Poi come è cominciato è finito, perché zi’ Rocco si è messo a urlare con il suo vocione, così tutto il paese lo sentiva: “Andatevene, stranieri, non siete ben accetti! Nessuno vi ha invitato, qui non c’è lavoro per voi. Non c’è niente per voi! Tornatevene da dove siete venuti!”. Il mormorio è ricominciato. Zi’ Rocco era alto, aveva la pancia gonfia, però era vestito elegante. “È arrivato quest’altro,” ha detto Pasquina. Sul balcone è uscito anche nostro cugino il sindaco, insieme a un altro tizio. Hanno scambiato due parole con zi’ Rocco, poi sono rientrati tutti e tre. Appena il balcone è rimasto vuoto, si è capito che quelle parole erano piaciute molto, perché subito si sono levati fischi e applausi e qualcuno ha anche intonato il coro “zi’ Rocco, zi’ Rocco, zi’ Rocco!”, come se eravamo allo stadio e lui aveva appena segnato un gol. “Zi’ Rocco sindaco!” ha gridato pure la Rapatorta, lì vicino a noi. I Rapatorti erano la famiglia peggiore del paese, quello lo sapevano tutti: si diceva che rubavano e che vivevano di furbizie alle spalle degli altri. Di sicuro avevano sempre lavorato la terra di zi’ Rocco, e lui li lasciava fare anche se facevano poco, perché erano rabbiosi, sembravano iene in cerca di prede, ed era meglio tenerseli buoni. Erano tanti, ed erano tutti uguali, non era mai esistito un Rapatorto diverso, diceva Nononno. In paese non piacevano a nessuno, ma tutti se li facevano amici. Di loro si parlava male nelle case e bene in piazza. Si vedeva dalla faccia che avevano qualcosa che non andava. La madre, per
esempio, che aveva appena parlato, aveva la bocca deformata da un ghigno, pareva una diavolessa. Nonna ci aveva detto che era stato un ictus, ma noi lo sapevamo che era la cattiveria. Il più grande dei fratelli dei Capazzapponi è andato dietro alla Rapatorta. “Ha ragione zi’ Rocco, andatevene!” ha urlato contro gli stranieri. Quelli stavano in piedi in mezzo alla piazza, circondati, e anche se non capivano la lingua capivano che non li volevano. “Qua non c’è niente per voi, tornatevene da dove arrivate!” “Qua ci sono solo guai!” gli ha fatto eco la Rapatorta. Alcuni hanno iniziato ad applaudire. Altri hanno preso pure loro a gridare. Si vedeva che la gente si spalleggiava, si sentivano uniti solo perché erano di Arigliana. Anche mamma e papà erano di Arigliana, ma al Nord quelli diversi erano loro. Molti iniziavano a urlare, i più giovani. Qualcuno cominciava a spingere, minacciava di andare dagli stranieri e di prenderli per il collo. Non lontano da dove stavamo noi c’era Nononna. L’ho guardata, lei ha scrollato la testa. “Quell’uomo è una carogna,” ha detto Refè. Antonietta, la proprietaria dell’unica bottega di vestiti del paese, ha detto alla Rapatorta “questi portano il malocchio. Qua non è mai arrivato nessuno, mo’ arrivano in sette, che è anche il numero della sfortuna”. “E guarda le donne, guarda che occhi hanno... Sembra che non hanno mai visto uomo,” ha aggiunto la Rapatorta. “Si porteranno via gli uomini nostri. Si capisce lontano come da qui alla fontana di Maria Bambina.” Poi dal bar è uscito Peppino. In mano aveva due bottiglie d’acqua fresca. Si è fatto largo tra la folla, e a fatica è riuscito ad arrivare fino al centro della piazza, dove stava immobile quella famiglia di disgraziati, senza sapere cosa fare, a lasciare che la gente si rifaceva gli occhi con la loro sfortuna. Peppino si è avvicinato agli stranieri, e si vedeva che sapeva che stava facendo una cosa coraggiosa, perché non è da tutti mettersi contro una massa che diventava sempre più infuriata. Allora per sdrammatizzare ha detto “non per niente faccio il barista”. Però nessuno ha riso. È andato dal primo della fila, l’uomo che sembrava il più forte, e gli ha dato una bottiglia. Quello era spaventato, non sapeva se prenderla o no. Ha fatto un passo indietro. Alla fine però l’ha presa. Con un gesto feroce l’ha aperta e in un sorso ne ha scolata metà. Poi Peppino è andato dal ragazzo e gli ha messo l’altra bottiglia tra le mani.
“To’, bevete. Quando volete, l’acqua sapete dove trovarla.”
11.
Certe volte mi prendeva tutto un desiderio di essere di più di me, mi sentivo così piccolo e così grande insieme che sarei voluto scoppiare, e quella era una di quelle volte. Avevo voglia di ballare, oppure di buttarmi sul letto e non alzarmi più, ma sempre così, senza sapere perché. Allora per provare a mandare via questa voglia, visto che Canetto in giro non si vedeva, cominciavo a cercare per la casa dei Nononni l’altra metà del moncherino di foto, dove doveva esserci la risposta di mamma alla mia domanda – nei cassetti, negli armadi, nello stipo della cucina, pure nella credenza –, che ci volete fare, quelle volte andava così, e anche se non lo trovavo da nessuna parte, il mezzo moncherino, già cercare un po’ mi calmava. Sicuramente era per via di quegli stranieri, perché li avevo scoperti io, e per via che Refè era diventato più scostante, e quando camminavo per Arigliana tutti mi guardavano come per darmi la colpa, passavano e scuotevano la testa, oppure chi mi aveva sempre salutato non mi salutava più, e non c’è cosa peggiore se la colpa non ce l’hai. Dall’arrivo degli stranieri, Nononno era ancora più incazzato del solito, ogni tanto mi guardava storto pure lui e pensavo che ce l’aveva con me e che mi voleva sbattere fuori di casa. Di questa cosa di sentire come una vertigine sono andato a parlare con zi’ Salvatore, era l’unico che poteva capirmi, e il migliore amico che mi era rimasto ad Arigliana. Era l’unico che faceva come se io non avevo scoperto proprio nessuno. Come sempre stava seduto davanti alla porta di casa col bastone attaccato alla spalliera della sedia. È stato come se non gli avessi chiesto niente, ha detto che è normale, che capita a tutti quelli che sono vivi di sentirsi così. “È perché siamo più grandi di quello che siamo, piccolo William. Abbiamo gli occhi che guardano in alto così non ci scordiamo che siamo come le stelle,” ha detto, e quando parlava in quel modo faceva un po’ il misterioso, la voce gli diventava come quella degli uomini dei film mentre sono seduti a bere un whisky con una donna bellissima e fumano il sigaro. Fanno quella voce che è
tutta di velluto e allora già si sa che si sposeranno, lo si legge negli occhi delle donne. Così zi’ Salvatore poteva dire tutto e io lo stavo ad ascoltare, e quando parlava ero sicuro che metà della verità che diceva dipendeva dalla sua voce, e allora mi dicevo che da grande dovevo fare gli esercizi per farmi venire pure io la voce di velluto, di metodi migliori per fare i soldi non ce n’è. Io a uno con la voce come zi’ Salvatore, anche se non sapeva leggere né scrivere né parlare italiano, gli avrei dato tutto quello che avevo per inventarsi delle risposte. Come quando da neonato mamma mi faceva il solletico mentre mi cambiava il cacaturo, e mi saliva un brivido dalla schiena fin sotto al palato, era un piacere stare al mondo così. Come faccio a ricordarmelo? Non lo so, però me lo ricordo. Comunque, in cambio delle lettere io potevo andare da lui quando volevo, a patto che non gli fregassi altri soldi, e potevo anche fargli tutte le domande che mi venivano in testa, perché era l’unico adulto che le prendeva sul serio. “Il tempo si può fermare, zi’ Salvatore?” gli ho chiesto. Tutto quel parlare di stelle mi aveva fatto venire in mente che lui era decrepito, e non è una bella cosa. “A volte mi sembra che va troppo veloce, e non vorrei ritrovarmi come voi prima del tempo, sapete...” “Certo che si può, Pietruzzo.” Ogni tanto, quando se lo ricordava, mi chiamava pure col mio nome vero. “E come si fa a fermarlo?” “Quando sarai grande e amerai una donna lo saprai.” Però a volte pure zi’ Salvatore si sbagliava, perché non sapeva niente di Michela, e nemmeno di Linetta, che più la vedevo ad Arigliana e più diventava bella, è incredibile ma secondo me è l’effetto che fa l’amore, fa diventare le cose più belle di quello che sono. Zi’ Salvatore aveva ragione, l’amore è come la macchina del tempo, che è la cosa che voglio costruire da quando sono piccolo e un giorno la costruirò. Servirà per tornare indietro o andare avanti dove mi pare e piace, per cambiare le cose che devono essere cambiate. Oppure, nei casi in cui non si possono cambiare, almeno guardarle succedere tutte le volte che voglio, che non è la stessa cosa, però almeno ci posso fare l’abitudine. Come l’ultimo momento che ho visto mamma prima che andasse via di casa, insomma me lo rifaccio sempre nella mente ma non lo so se è proprio così che è andata, e se lo potessi rivedere quando voglio magari lo cambierei, oppure di volta in volta la parolina giusta a quell’altro Pietruzzo gliela potrei suggerire, e magari mamma alla fine non se ne andrebbe, chi lo sa. E meno male che ho quel moncherino di foto attaccato al collo, altrimenti ogni tanto penserei che è tutto un sogno, invece mi chiedo chi è quella ragazzina che ha rubato gli occhi a pertusidd’ di Nina ed è
così piena di vita e di futuro. Un giorno mamma mi farà trovare l’altra metà, e risponderà alla mia domanda. Poi zi’ Salvatore mi ha detto che era molto importante, per me che so usare carta e penna, prendere un quaderno e scriverci sopra i pensieri che vengono, perché la memoria gioca brutti scherzi e dimentica le cose, specie le più importanti, e che se fosse stato capace lo avrebbe fatto anche lui, ma aveva dovuto tenere tutto a mente, e quella era una fregatura, perché c’erano giorni che l’unica cosa che si ricordava era il nome del più piccolo dei suoi nipoti americani. Allora sono andato alla bottega di Nononna e ho rubato un quaderno, e sulla prima pagina ci ho scritto Ricordati di non dimenticare. Là sopra ci potevo anche annotare le cose che succedevano ad Arigliana, così poi le raccontavo a papà quando telefonava. Per lui, sentir parlare del suo paese era la gioia più grande del mondo. E io sapevo che se volevo farlo contento bastava che gli raccontavo un fatterello o due. Poi ho richiuso il quaderno e sono uscito a giocare con Nina. Era da un po’ che non giocavamo insieme, anche se lei me lo chiedeva sempre.
12.
Poi si è saputo che il ragazzo non era figlio di nessuno di quegli adulti, era un orfano, o meglio un orfano orfano, perché non aveva più nessuno al mondo. Quegli adulti infatti erano i suoi zii e le sue zie, e poi c’era anche sua nonna, la più vecchia della banda. Contemporaneamente, in quei giorni, tutti in paese si sono ricordati di quello che non avevano mai avuto e che avrebbero voluto avere, oppure del poco che avevano e che adesso con gli stranieri sembrava più prezioso. Nononno andava di continuo alla garamm’, la discarica dove si butta quello che non serve più, nella parte alta del paese dove mi aveva portato a sette anni per raccontarmi della sua rovina, e stava ore a guardare giù, a fissare il niente. Da lì, come dalla torre, si vedeva la distesa dei campi. Ogni scusa per lui era buona per andare a buttare qualcosa: gli imballaggi dei prodotti della bottega, i cartoni del latte, gli scarti dei pomodori quando Nononna faceva la salsa... In paese sembravano tutti matti, pure quelli più calmi come zi’ Vincenzino, che stava tutto il giorno chiuso dentro il bar di Peppino a bersi l’amaro Lucano. Ma adesso, con l’arrivo di questi stranieri, aveva recuperato la parola pure lui, e al paese c’era chi gridava al miracolo. Invece era solo la paura. Sono andato al bar perché Nononna voleva il suo gelato preferito, la Bomboniera – cascasse il mondo, almeno quattro o cinque palline al giorno se le doveva mangiare. Era alla bottega con Catina, la sua migliore amica, e non smettevano un attimo di parlare della catastrofe che stava per abbattersi per via di quegli stranieri. “Mai nessuno c’è venuto per centinaia di anni, e mo’ Arigliana sembra il centro del mondo,” aveva detto Catina. Poi sono uscito, certi discorsi non mi piacevano per niente. Però il bar era pieno di gente che parlava della stessa cosa. “Ne arriveranno altri, tra poco, vedrai. Faranno come abbiamo fatto noi in Germania e in America. Si porteranno appresso gli zii e i nipoti. Si prenderanno il tuo bar, e tutto il resto,” stava dicendo Carmine il postino spione, mentre Peppino portava
l’amaro Lucano a zi’ Vincenzino, seduto come sempre in un angolo a guardare quelli che giocavano a scopa. “Si prenderanno i nostri lavori,” ha detto Pesciolino da un tavolo in fondo, facendo scopa col settebello in faccia a Nicola, il figlio del fornaio. Pesciolino era uno dei pochi che non lavorava nelle terre di zi’ Rocco, suo padre aveva tenuto un pezzetto di campagna al di là del torrente, l’avevano riportata in vita e lui ci si spaccava la schiena. Non ce n’erano tanti, che erano tornati a coltivare dopo l’avvelenamento delle piante, però qualcuno sì – produceva quello che serviva alla sua famiglia, e vendeva olio e grano. “Quelli, pur di lavorare, lavorano per niente. Vedrai se non succede così.” Pesciolino ha sbattuto la birra sul tavolo, la schiuma è schizzata fuori e ha bagnato le carte. Tutti si sono girati. Pesciolino, insieme a Nicola, era il più giovane, avrà avuto vent’anni, gli altri settanta. Quel giorno non era andato a lavorare, per sentire cosa diceva il paese degli stranieri. “Una vita per mettere a posto la terra di nonno e adesso va tutto a puttane. Questi fanno quello che abbiamo fatto noi. Andrà a finire che si prenderanno i soldi nostri, vedrete se non c’ho ragione io.” “Non è vero!” ha gridato zi’ Vincenzino dal fondo del bar. “Noi abbiamo fatto il Nord con il nostro lavoro, e in America e in Australia abbiamo pagato le tasse. Gli abbiamo fatto le strade a quelli là, gli ospedali, le scuole, con il nostro sudore. Altro che chiacchiere! Questi sono diversi da noi: non hanno voglia di faticare.” “Di questi sette non ci interessa niente...” ha detto Pesciolino. “Però qua non devono stare bene. Non devono dire agli altri di venire.” Qualche giorno dopo era il giorno dell’assemblea pubblica dentro il Comune. Il sindaco l’aveva decisa per chiedere ad alcune delle famiglie di Arigliana, quelle con le case più grandi, se per caso si volevano prendere gli stranieri. Ma siccome di nuovo c’era tutto il paese e pure molti forestieri, la gente era talmente tanta che dentro il Comune non ci si stava. Allora il sindaco ha gridato al microfono che ci dovevamo spostare tutti, perché mancavano le uscite di sicurezza. “Andiamo al campo sportivo,” ha urlato. “Umbe’...”, e intendeva Umberto, il maresciallo dei carabinieri che stava lì in piedi pure lui, la divisa stretta stretta sulla pancia per via che era ingrassato, “...prepara la macchina e fai due viaggi, che quelli bisogna portarli giù scortati.” Quelli erano gli stranieri. Allora chi era dentro è uscito di corsa, gli altri che non erano riusciti a entrare
erano felici perché potevano sentire anche loro. Stava arrivando la sera, il sole era già tramontato.
13.
Il campo sportivo era giù, dove iniziano le case di Arigliana. Quando siamo arrivati io, Nina, Nononna e Nononno (l’evento era talmente importante che era venuto pure lui), c’era un microfono che fischiava. Abbiamo camminato piano, con noi c’erano due vecchi, perciò erano già quasi tutti lì. Avevano preso tre cattedre dalla vecchia scuola elementare, e le avevano messe una di fianco all’altra. Alle due estremità, appoggiate sulle cattedre, c’erano due casse. Dietro alle scrivanie erano seduti il sindaco e degli altri, Nononna mi ha spiegato che erano i consiglieri. In piedi, lì di fianco, stavano i sette stranieri, in fila. Il ragazzo era al centro, le tre donne erano le ultime. Erano messi meglio, li avevano fatti lavare. Però tenevano le teste basse, le braccia allungate sui fianchi, non avevano il coraggio di guardare dritto. Le due donne più giovani erano vestite di nero e tremavano, sembrava dovessero afflosciarsi da un momento all’altro. Solo la nonna fissava davanti, come una vecchia civetta con gli occhi spalancati e la faccia di rughe. Ogni tanto guardava di lato al ragazzo e gli sorrideva, per tranquillizzarlo. La macchina del maresciallo Umberto era parcheggiata dietro la porta di calcio, sembrava che quelli fossero delinquenti davanti al plotone d’esecuzione. Poco più in là, in un angolo, Refè era seduto a terra e li guardava. Le persone del paese e i forestieri stavano in mezzo al campo da pallone con l’erba secca, nessuno si era seduto sulla gradinata di cemento. Non l’avevo mai visto di sera, il campo, con i fari accesi. Quasi quasi sembrava uno stadio vero. Poi il segretario comunale ha attaccato il generatore, e ha gridato “silenzio!”. Si sono zittiti tutti. Così nostro cugino Ninuccio il sindaco ha potuto prendere la parola: ha spiegato che il metodo che il consiglio comunale aveva deciso di applicare era quello delle votazioni per alzata di mano su ogni punto, era importante che tutto il paese fosse coinvolto. Ha pregato i forestieri di non votare. Qualcuno s’è messo pure a mormorare. Hanno cominciato. Il sindaco ha chiesto se c’era una famiglia del paese disposta a ospitare gli stranieri tutti insieme. Nessuno ha alzato la mano.
Allora si è votato per decidere se separarli, e a quel punto quasi tutti hanno alzato la mano. Si è deciso che sì, bisognava separarli. Poi il sindaco ha proposto di vedere se qualcuno voleva prendersi solo i tre uomini, anche se sembrava ovvio che nessuno avrebbe accettato di tenersi in casa tre stranieri maschi, che tutti sanno che puzzano più delle femmine. Nostro cugino ha fatto la domanda dentro al microfono, che continuava a fischiare. Di nuovo, nessuno ha alzato la mano. Ha aspettato, poi ha ripetuto la domanda, per essere sicuro. “C’è qualcuno con una casa grande abbastanza da ospitare i tre uomini?” In queste cose si deve ripetere due volte. Nessuno. “Allora dividiamo i tre uomini in tre case diverse,” ha detto Ninuccio. È stato a quel punto che si è sentita una voce. Una voce forte. Tutti abbiamo capito subito chi era stato a parlare, perché ad Arigliana tanta gente con una voce così non ce n’è. “Me li prendo io,” ha tuonato. Era zi’ Rocco. Nostro cugino non sapeva cosa dire, nessuno sapeva cosa dire. Zi’ Rocco era stato il primo a spargere odio dalla finestra del Comune, ma la memoria è una cosa che adesso c’è e adesso non c’è più, quindi alcuni pensano di poter fare tutto. “...ma tutti e tre o solo uno?” ha chiesto il sindaco. Perché il dubbio poteva venire. “Li prendo tutti.” La voce era squillante, e da dove stavamo noi sembrava pure più squillante di quella che usciva dagli altoparlanti scassati. Tutto intorno si era levato un brusio confuso. Poi si è fatto silenzio, come se fosse scesa sulla terra la voce di Dio. I tre uomini stranieri solo a quel punto hanno alzato la testa, insieme, come tre uccellini indifesi, per cercare la voce che se li era presi. Nononno sembrava schifato. Nononna scuoteva la testa. Ho cominciato a tossire, a fare starnuti per finta, insomma ogni rumore che poteva disturbare quel silenzio imbarazzante, perché a me quella voce mi disgustava pure un po’, e il silenzio degli altri ancora di più. “Li prendo tutti,” ha dovuto ripetere zi’ Rocco, perché pure lui in mezzo a quel silenzio forse si era confuso. Ninuccio il sindaco a quel punto è stato costretto a parlare. “Zi’ Ro’... Ti prendi tutti gli stranieri, o tutti e tre gli uomini?” “Prendo gli uomini. Le donne e il ragazzo li lascio.”
Allora finalmente è ricominciato il solito mormorio della gente di Arigliana, e così le cose erano più normali. “È povera gente, dobbiamo fare qualcosa per loro,” ha aggiunto con voce spezzata quel pallone gonfiato di zi’ Rocco. Qualcuno da qualche parte ha fatto partire un applauso, e in men che non si dica tutti stavano battendo le mani. Ho guardato bene, e molti erano gli stessi che in piazza avevano applaudito quando aveva detto che gli stranieri se ne dovevano andare. “Tu sì che non hai paura!” ha gridato uno. “Non ti fermi davanti a niente!” urlavano. Qua la gente è pazza, ho pensato. Nononna aveva capito tutto, e ha detto “quant’è strunz’”. Però Catina, lì di fianco, l’ha sentita e le ha tirato una gomitata. Nonno ha fatto il finto tonto, “che c’è?, non ha detto niente”, e invece che era stronzo l’aveva detto. Poi era il turno dell’orfanello, e la scena è stata un po’ triste, perché lui (che più lo vedevo e più era uguale a me, solo che aveva gli occhi chiari) teneva la testa ancora più bassa degli altri e le braccia ancora più allungate, le spalle incurvate e le ginocchia piegate. Quasi quasi si richiudeva su se stesso come un K-way quando esce il sole. Sembrava un cucciolo di riccio. Quando eravamo piccoli, con Refè nel bosco di Chianosa ne avevamo trovato uno. Refè lo aveva preso in mano, stava tutto dentro il suo palmo, ma era talmente spaventato che non eravamo riusciti ad aprirlo. Zi’ Salvatore aveva fatto tutto lo sforzo dei Titani per arrivare al campo sportivo, sotto braccio a Franco, che lo aveva aspettato, e a Peppino, che se li era visti passare mentre abbassava la saracinesca del bar e aveva preso anche lui zi’ Salvato’ sotto un’ascella, pure se aveva una voglia matta di correre giù. Quando finalmente erano arrivati, erano rimasti proprio in fondo a tutti. Da dov’erano non vedevano niente, sentivano solo gracchiare gli altoparlanti scassati, seguivano quello che succedeva dai commenti dei vicini. Chi l’aveva visto non riusciva a credere che zi’ Salvatore aveva fatto la strada dal paese al campo sportivo per vedere con i suoi occhi che cosa succedeva di quegli stranieri. Nessuno si ricordava da quanto tempo non lo incontrava per strada a farsi una bella passeggiata, il povero zi’ Salvatore, con gli anni che si portava addosso, lui che quando era giovane era Salvato’ l’Americano, e saltava a destra e a sinistra. Comunque, il sindaco aveva parlato nel microfono per l’orfanello, che poi tanto -ello non era, perché era alto quasi come un adulto e le spalle sembrava che bucavano la maglia per via che erano magre e larghe.
“Chi è disposto a prendersi in casa questo ragazzo? È in buona salute, può aiutare nelle faccende domestiche,” ha detto nostro cugino. Nel tempo che il sindaco ha ripetuto la domanda, la Rapatorta si è messa a gridare. “I pidocchi ce li siamo tolti dai materassi!” ha detto, che voleva dire che non lo voleva in casa insieme ai suoi figli. “Seee, i suoi figli attaccherebbero i pidocchi a lui,” ha detto Nononna, e Catina le ha tirato un’altra gomitata. Allora Franco, il padre di Refè, ha detto qualcosa, e zi’ Salvatore che stava sotto il suo braccio ha capito che si trattava del ragazzo, perché non vedeva da qua a là. “Ma quali pidocchi!” ha gridato Peppino, che era pur sempre stato il primo a portare l’acqua agli stranieri, e si sentiva in diritto di dire qualcosa. “Pidocchi è niente, magari è colera!” si è sentito forte da davanti. Chi aveva parlato? “È stato Giuseppe, il falegname.” Nonna di Arigliana sapeva tutto. Ho scosso la testa, non avevo capito, e nonna ha aggiunto “il padre d’ Domenic’”. Allora ho cercato Domenico, l’avevo visto prima mentre arrivava con la Vespa, si era fermato, aveva messo il cavalletto e lui e Enzuccio erano rimasti in sella. Domenico faceva girare gli occhi tutto intorno: qualcuno lo stava guardando? Si vedeva che si vergognava. Mentre ognuno si sentiva in diritto di dire qualcosa e tutti iniziavano a mormorare, zitto zitto zi’ Salvatore aveva alzato il braccio. Neanche Franco che gli stava accanto se n’era accorto. Poi il sindaco si è messo a gridare più forte e ha ripetuto la domanda: “Chi è disposto a prendersi in casa questo ragazzo?”. È stato allora che Franco si è reso conto che il vecchio aveva quel ramo secco alzato. Sottovoce, zi’ Salvatore gli ha detto “qua non mi caca nessuno”. Nel frattempo il sindaco non sapeva cosa fare, perché nessuno rispondeva. Poi Franco ha cominciato a sbracciarsi. Il sindaco ha ripetuto la terza volta la domanda, ma non è arrivato alla fine perché si è accorto delle mani di Franco. Tutti hanno fatto silenzio. Chissà come mai, il silenzio aiuta a vedere meglio. Ninuccio ha detto nel microfono di fare ancora più silenzio perché doveva guardare bene, forse c’era una persona interessata. Ha guardato in fondo, e allora tutto il paese – che poi saranno state sì e no trecento persone, compresi i forestieri – si è girato verso il fondo, e verso Franco. Lui non sapeva cosa fare e si è girato verso zi’ Salvatore, come a dire che non era colpa sua. È stato allora che tutti hanno visto che pure il vecchio zi’ Salvatore teneva il
braccio alzato. Però era quello sbagliato, perché a spuntare era la cornetta telefonica, cioè il pollice e il mignolo con il vuoto in mezzo. “Vieni a stare con me,” ha detto zi’ Salvatore con un filo di voce, e nessuno ha sentito, perché la sua voce era sì di velluto ma bassissima. Qualcuno ha urlato “voce! Non si sente niente!”. Franco si è sbracciato di nuovo, intendendo che lui aveva sentito. “Cosa?” ha chiesto il sindaco da dietro la cattedra. “Vin’ a sta p’ mmè,” ha ripetuto zi’ Salvatore, questa volta in dialetto, e stava parlando direttamente all’orfano orfano. Così quelli attorno a lui, gli unici che avevano sentito, hanno iniziato a fissare l’orfanello, mentre tutti gli altri dentro quel campo da calcio non c’era niente che volevano di più che sapere pure loro. L’orfano orfano però ha capito, perché quello è stato il momento in cui per la prima volta, timido come un pulcino, ha guardato davanti. Gli occhi, velocissimi, si sono alzati e poi si sono subito riabbassati. La Rapatorta, che aveva sentito tutto come sempre, ha gridato “ci sap’ cce’ adda fa’ pe’ ccud’, zi’ Salvator’”. Lei pensava che ci fosse sotto qualcosa, chissà quali cose schifose aveva in mente il vecchio. Ed è stato così che il paese ha saputo cosa aveva detto zi’ Salvatore. Tutti allora hanno iniziato a parlare insieme, ma solo io avevo capito che zi’ Salvatore si era fatto una ragione che i suoi nipoti americani non li avrebbe visti mai, e allora voleva fare finta che quell’orfano era suo nipote. E poi lo straniero le dita ce le aveva tutte e dieci, e pure quello poteva tornargli utile, al povero zi’ Salvatore, che dieci dita in più non si trovano tutti i giorni. Queste cose ho pensato quando gli ho sentito dire “vieni a stare con me”, però devo essere onesto: le ho pensate per far stare zitta la gelosia, perché zi’ Salvatore prima di tutto era amico mio. Franco, il padre di Refè, ha sputato a terra, anche se era lì di fianco. Ho guardato suo figlio, lontano, seduto sull’erba secca, e stava scuotendo la testa. Si è pure staccato dal vecchio, che quasi cadeva, ma ci ha pensato Peppino a tenerlo su. Franco diceva “è diventato pazzo, zi’ Salvator’ è diventato tutto pazzo”. Poi si è allontanato, ha lasciato il vecchio in piedi come uno stoccafisso, e non smetteva di scuotere la testa, come se avesse fatto chissà che. Allora Carmela, la figlia di Catina, che era lì vicino pure lei, ha preso zi’ Salvatore sotto braccio dall’altra parte, e si vedeva che il vecchio era contento,
perché in mezzo a quelle due braccia si è lasciato andare soddisfatto, sorrideva da solo manco si fosse coricato dentro il letto più comodo al mondo. Poi è stata la volta delle tre donne, le due zie e la nonna del ragazzo. Per loro è stato più semplice. La nonna non aveva smesso un attimo di guardare di fronte a lei come una civetta all’erta. Però dalla prima fila si è subito alzata la mano del giudice Lopiano, e non c’è stato neanche bisogno di ripetere la domanda. Sarebbero andate a vivere nel piano interrato del loro grande palazzo, avrebbero aiutato la famiglia a sbrigare le faccende domestiche, in cambio anche di un piccolo salario. Allora la nonna, per la prima volta, ha fatto un grande sorriso. Le è cambiata la faccia: da civetta è ritornata essere umano. Da lontano mi ha ricordato Nononna quando ci vede ed è contenta. Appena il sindaco ha smesso di parlare, il giudice si è avvicinato per dire che la decisione era stata presa. Qualcuno gli ha fatto un applauso, ma solo perché era il giudice, e applaudire un giudice va sempre bene. “Basta che applaudono...” ha detto Nononno, e significava che, pur di non prendere nessuna posizione, le persone sono sempre pronte ad applaudire qualcuno. Ho guardato le due donne più giovani, e anche loro sembravano felici di avere finalmente una casa e di andare ad abitare da quello che sembrava il più elegante di tutti, zi’ Rocco a parte.
14.
Ero un po’ geloso che zi’ Salvatore si era preso un altro ragazzino e non preferiva più me. Mamma mi aveva visto che stavo sempre sdraiato sul divano a giocare col sacchettino che avevo al collo e aveva capito... Quella capisce tutto, Nina è come lei. Mentre i Nononni facevano la pennichella, dopo pranzo, è venuta da me, si è seduta lì di fianco. “Pi, vieni qui che ti racconto una storia. Che è una storia vera.” Io mi sono subito sentito un po’ meglio, perché quando hai qualcuno che ti racconta una storia non puoi chiedere di più, non tanto per la storia ma per tutta quella vicinanza che ti fa stare bene. Ho appoggiato la testa sulle sue gambe, mamma mi faceva le carezze sui capelli. E poi a me le storie vere piacciono pure più di quelle inventate, perché sai che le ha scritte Madre Natura in persona e non un uomo qualunque. Così io ero già mezzo guarito dalla gelosia e dalla tristezza ancora prima che mamma iniziasse a raccontare, e anzi la mia schiena già si preparava con tutto l’armamentario di brividini e solletichini di ogni volta che qualcuno si prende il disturbo di raccontarmi qualcosa. Certo, pure le carezze sulla testa aiutavano. Allora mamma ha detto che dovevo essere contento per zi’ Salvatore, perché oggigiorno i vecchi non servono più a niente, e quindi era buono che aveva trovato qualcuno che stava con lui. “Invece una volta i vecchi erano importanti, Pi. Per quello che potevano fare dopo la morte.” “Dopo la morte?” ho ripetuto. Non ci stavo capendo niente. “Adesso nessuno ci pensa più ai vecchi, così loro non pensano più a nessuno dopo che sono morti. Lo fanno per ripicca.” “Chi si è visto si è visto?” “Sì, in un certo senso.” E mi ha raccontato di una sua zia, una sorella di Nononna, che quando era morta la loro madre ne aveva combinata una grossa. A me che Nononna aveva avuto pure una mamma non mi tornava proprio, però sono stato a sentire lo stesso, perché la voce di mamma era come quando si
comincia a sciogliere la neve in cima a una montagna e sta arrivando la primavera. “Poco prima di morire, sua mamma aveva detto a zia Teresina che da Lassù si sarebbe assicurata che nella vita a lei e alle sue sorelle tutto filasse liscio. Però lei, che era la più grande, in cambio nella bara avrebbe dovuto vestirla con un vestito bellissimo e con delle scarpe nuove e lucide.” “Per farla andare nell’Aldilà come una Miss Italia,” ho detto, e intanto pensavo che quando ci sono i morti una storia è sempre più interessante. “Allora erano andate insieme a fare gli acquisti, e mia nonna era molto felice di quanto sarebbe stata elegante, perché tutto il paese l’avrebbe vista nella bara aperta. Poi, quando è morta per davvero, zia Teresina l’ha vestita come si erano messe d’accordo. Nessuno ad Arigliana poteva credere a tutta quell’eleganza. Quando si era trattato di chiudere la bara, però, zia Teresina ha pensato che quel paio di scarpe nuove doveva tenersele lei, erano troppo belle.” Una ladra, ho pensato io. Ecco da chi ho preso, da zia Teresina. “Qualche settimana dopo, però, una signora del paese è andata dalla zia per raccontarle che continuava a fare un sogno strano: compariva mia nonna e le chiedeva di un paio di scarpe, e se al primo morto potevano infilarle dentro la bara, perché altrimenti da Lassù non avrebbe potuto fare niente per aiutare la famiglia. A zia Teresina sono venuti i brividi. Così, quando è morto Pasqualino il cecato, ha chiesto ai parenti se poteva infilare le scarpe nella bara, in modo che sua madre potesse riceverle. È stato proprio così. Da allora la nonna ha smesso di comparire in sogno alla signora e ha cominciato ad aiutare la famiglia. Infatti tutti abbiamo avuto una buona vita.” Mi sono messo a pensare a quando Nononna se ne andava all’altro mondo, così magari mi faceva giocatore della Nazionale, oppure mi faceva inventare la macchina del tempo, o se no potevo diventare astronauta, o magari faceva tornare mamma con noi, che capiva che l’altra casa non era un granché, e abbandonava pure gli altri bambini che probabilmente si era presa da quando non preferiva più me e Nina (a questa cosa era meglio che non ci pensavo, se no mi veniva una delle mie crisi di nervoso). A mamma non ho detto niente, non erano cose per lei, poi si preoccupava che non stavo bene. Dalla camera da letto dei nonni in quel momento è spuntato Canetto, che cosa ci faceva lì lo sapeva solo lui. Si è messo vicino al divano e ha iniziato ad abbaiare forte. Era un canuccio piccoletto, però faceva il suo solito casino. Avevo una gamba a penzoloni fuori dal divano, e quello non ha cominciato a mordermi il polpaccio? Voleva giocare, però faceva male. Lo staccavo, ma lui continuava. “Hai capito cosa vuol dire questa storia?” mi ha chiesto mamma. Che c’era
Canetto non le importava, parlava come se niente fosse. Poi quello veniva sempre e solo da me. Una delle ultime volte che avevamo cercato nell’armadio a Milanox, Nina aveva detto che non lo voleva più vedere, e Canetto da lei non ci era più andato. “Vuol dire che prima i vecchi erano importanti. Non quando erano vivi, anche se erano rottami, ma dopo, perché facevano i favori,” ho risposto, mentre cercavo di aprire la bocca a Canetto; mi faceva male quel cavolo di cagnolino pezzato. Mamma mi ha dato un bacio sulla fronte. “Sì... Oggi invece un vecchio è un rottame e basta,” ha detto. “Allora zi’ Salvatore ha fatto bene a prendersi quell’orfano, così gli tiene compagnia.” Poi mi sono alzato e ho lasciato lì mamma come una scema, le femmine dopo un po’ diventano appiccicose, è sempre così. “Ma’, adesso vado a giocare.” Canetto era saltato sul cuscino e si era messo di fianco a lei. Mi guardava immobile, la lingua fuori e la coda che si muoveva veloce. Tutti avevano capito che zi’ Rocco si era messo in casa gli uomini perché così aveva tre persone in più da far lavorare. Quello che invece nessuno aveva capito, a parte Filomena la madre di Refè (Filomena, lo giuro, a vederla non le avresti dato un centesimo da quanto era brutta, e in più pareva che l’umidità le era entrata dentro la gola per come parlava, con una vocina stridula stridula), era che quello era solo l’inizio. Filomena infatti era venuta a casa di Nononna con in braccio Donatino, il figlio piccolo che sorrideva a tutti, e si era messa a dire a nonna e a Catina che quella era proprio una cosa sciagurata. “Peggio di così non poteva andare, zi’ Beatri’,” ha detto. “Che è successo di irreparabile?” Si capiva che nonna voleva minimizzare. “Ma come, non vi è arrivata la voce? Quello si è preso gli stranieri per abbassare la paga a tutti quanti.” Nononna e Catina non hanno più risposto, e questo era molto strano, perché tra tutte e due non si sapeva chi aveva la battuta più pronta. Poteva significare solo che Filomena aveva ragione. E infatti, dal giorno dopo, zi’ Rocco ha messo in chiaro a tutti che non ospitava quei tre invasori in cambio di niente, e anzi ha fatto stampare e appendere di fianco al bar di Peppino, sui muri della torre e sul cancello della villa un bel cartello con scritto:
NESSUNO È NATO PRIVILEGIATO E TUTTI SI DEVONO GUADAGNARE IL PANE A QUESTO MONDO. NESSUNO PUÒ PRETENDERE VITTO E ALLOGGIO GRATIS. FIRMATO, ROCCO IMPELLITTIERI.
Tutti nel paese hanno letto quella scritta e tutti hanno concordato: nessuno al mondo aveva mai avuto niente per niente. Quindi non si capiva perché questi, che erano pure stranieri, dovevano avere tutto in cambio di niente. Gesù Bambino non era ancora arrivato a portare i regali. “Devono avere meno di quello che abbiamo noi, e invece hanno di più! E che dobbiamo fare? Quando noi siamo andati via per lavorare nessuno ci ha regalato niente, ogni centesimo ce lo siamo guadagnato con il sudore e con la nostalgia.” È stato Franco il padre di Refè a dirlo, visto che era venuto a casa di Nononna a portare la metà dei vavalici che aveva raccolto con nonno qualche giorno prima. Li aveva tenuti a bagno per lasciarli spurgare. Per farli vedere a me e a Nina, Franco ha aperto il grande sacco di tela bianco. Le lumache erano arrampicate sulla parte interna, si capiva che volevano uscire a respirare un po’ d’aria. Avevano le antenne lunghissime, però erano troppo lente e facevano proprio schifo da quanto erano viscide. Nononna ha preso il sacco e l’ha richiuso con un nodo. Poi ha tirato fuori dallo stipo la pentola più grande che aveva e ci ha messo l’acqua. Franco nel frattempo si era acceso una sigaretta, e ha riempito di fumo la cucina. Nonna l’ha guardato storto, ma quello non si è accorto di niente e ha continuato a fumare. Nonna ha acceso il fornello e ha versato le lumache nel pentolone. Gli animaletti volevano resistere, ma lei con le dita li staccava uno per uno e li buttava dentro, poveretti. Poi ha preso il coperchio. “Stasera ne mangiam’ vavalic’,” ha detto. Franco ha chiesto un posacenere, ha spento la sigaretta e se n’è andato verso il lammione. In quel momento Nononno è tornato dal Circolo sociale, come sempre di cattivo umore. Anche se, quando ha capito che avremmo mangiato le lumache che aveva raccolto con le sue mani, è diventato subito contento.
15.
Così, quei tre uomini stranieri, dalla mattina dopo – prima dell’alba – sono stati caricati sul camion (dentro al rimorchio aperto) che ogni giorno partiva dalla piazza per portare i braccianti ai campi. Era stata Nononna a vederlo e a raccontarcelo, mentre cucinava. “Poveretti, neanche sono stati tirati fuori dalla torre, e si sono ritrovati con una zappa in mano,” ha detto a nonno, mentre controllava la pasta, perché se era “ancora alla bottega”, come diceva lui, non riusciva a masticarla (nonno, l’ho già detto, aveva la dentiera: la prima volta che l’avevo vista nel bicchiere sul comodino, mentre lui era in bagno, mi stavo sentendo male dalle risate). “Era meglio se ti facevi i fatti tuoi,” mi ha detto Nononno, e voleva dire che sarebbe stato meglio per tutti se non li scoprivo. La stessa frase che mi aveva detto Refè. Però non mi dispiaceva farlo arrabbiare ogni tanto, perché il tempo su di lui era passato come su zi’ Salvatore, e a volte diventava un po’ fessacchiotto, gli occhi anziché guardare avanti si perdevano e se ne andavano chissà dove, era lì ma era come se non ci fosse. Così lo facevo arrabbiare per svegliarlo un po’, magari non era ancora completamente da buttare alla garamm’, che ormai era uno dei suoi posti preferiti. Nononna invece si scrollava di dosso il tempo come un impermeabile dopo che è piovuto. La cosa bella però era che lo straniero orfano orfano era andato ad abitare a casa di zi’ Salvatore, e quindi io e Nina, dal piano di sopra dove dormivamo, vedevamo tutto. Se stavamo zitti potevamo pure sentire, i muri delle case distavano sì e no un paio di metri. A dire la verità vedevamo solo quando lo straniero saliva al primo piano, dove c’era la camera da letto che zi’ Salvatore gli aveva dato – un tempo era stata la camera di sua madre, quando era tornato da New York per stare con lei che stava morendo. Io e Nina ci nascondevamo dietro le tende e guardavamo lo straniero, che alla sua finestra di tende non ne aveva. Stava in quella stanza mezza vuota, con solo
una brandina e il vecchio pianoforte scassato del padre di zi’ Salvatore, accostato alla parete. Comunque quel ragazzino era strano. L’umidità della torre doveva avergli fatto male al cervello, perché non faceva mai niente. Se ne stava sempre sdraiato su un fianco a leggere un libro, doveva essere quello che avevo visto dentro la torre. Sembrava proprio importante per lui, non come me con Centomila gavette di ghiaccio, che lo leggevo solo per dovere. Io e Nina stavamo ore a guardarlo, neanche fosse un film, volevamo che succedesse qualcosa e invece non succedeva niente. Ma ci piaceva lo stesso, era come un documentario sugli animali, quando tu li guardi e loro non lo sanno. L’orfano si muoveva solo quando zi’ Salvatore lo chiamava per apparecchiare la tavola, oppure per andare a comprare qualcosa, altrimenti stava sul letto. Come facevano quei due a capirsi noi non lo sapevamo. Però si capivano, perché di problemi non ne avevano. La bottega di Nononna era fatta apposta per sapere i fatti di tutti. Bastava starci due ore e fingere di sistemare qualcosa. Appena vedevamo entrare Catina, io e Nina andavamo di corsa. Quella volta ci siamo offerti di ripiegare per bene e di schiacciare col ferro da stiro dei fazzoletti di stoffa colorata e profumata, che erano arrivati in due piccole scatole di cartone rosa. Leonardo, il figlio di Catina, lavorava nei campi, quindi lei sapeva tutto quello che succedeva lì, e poi lo riferiva a nonna per filo e per segno. Il giorno prima era venerdì, il giorno di salario. Zi’ Rocco doveva pagare tutti, braccianti, pastori, operai dell’azienda agricola, trasportatori. Li aveva riuniti nel cortile della masseria, compresi i tre stranieri, e con la sua voce tonante aveva detto: “Le cose vanno male, non è più come una volta. Devo abbassare le paghe, altrimenti rischio di andare in malora. D’ora in poi, questo è quello che prenderete”. Aveva fatto distribuire ai capi dei braccianti, braccianti pure loro, le solite buste. Solo che le buste erano più leggere. Uno, il primo figlio dei Capazzapponi, aveva aperto la sua, e aveva contato: poco più della metà dei biglietti. Allora aveva ricontato, doveva essersi sbagliato, ma i biglietti continuavano a essere la metà. Aveva detto qualcosa, e i capi non avevano risposto, perché i capi erano fatti apposta per non dire niente e
fare felice il padrone. Allora il Capazzappone aveva parlato di nuovo, e a quel punto era stato zi’ Rocco in persona a rispondere. “Di gente che lavora a questa cifra ne trovo quanta ne voglio”, e aveva indicato i tre stranieri. “Loro, per esempio. Se non ti sta bene, vattene.” Poi zi’ Rocco era salito sulla sua Maserati nera, senza dire una parola. Prima, però, aveva dato ordine a uno dei suoi uomini di riportare a casa i tre stranieri. Quello aveva esitato, non capiva perché doveva fare l’autista privato di quei tre. “Muoviti!” aveva urlato il padrone. Si vede che fiutava qualcosa. Agli occhi dei braccianti, che avevano aperto le buste e le avevano trovate mezze vuote per colpa degli stranieri che lavoravano a meno, sembrava che zi’ Rocco li proteggeva pure, gli dava pure i passaggi. Allora i braccianti si erano incazzati ancora di più. Se l’erano presa con i capi. Qualcuno aveva minacciato di alzare le mani, qualcun altro le aveva alzate direttamente. Ne era nata una grande zuffa. Non era più solo per le buste più leggere, né più solo per gli stranieri, né più solo per la prepotenza di zi’ Rocco: era una scusa per sfogare la rabbia. Alcuni si erano messi in mezzo a dividere, tutti se l’erano presa con tutti. Alla fine se le erano date di santa ragione. Zi’ Rocco era tornato indietro. Era sceso dal suo macchinone e si era messo a gridare. “Tutti licenziati! Quanto è vera la Madonna Bambina, lo faccio seduta stante! Fuori dalla mia terra e da questa azienda! Fuori dalla Masseria Lucania!” Tutti si erano cacati sotto, nessuno si poteva permettere di perdere il lavoro. Allora si erano calmati. Così zi’ Rocco si era tranquillizzato pure lui, e sorridendo aveva chiesto chi aveva cominciato. Allora prima due o tre, poi altri avevano indicato Capazzappone, che aveva il sangue che gli usciva dalla bocca, ma non era stato il primo ad alzare le mani. Era stato il primo a parlare sulla busta che pesava la metà. “Tu qua dentro non ci metti più piede,” gli aveva detto zi’ Rocco, e l’aveva licenziato. Capazzappone aveva provato a rispondere, ma zi’ Rocco gli aveva tirato uno schiaffo in pieno viso. “Statti zitto! Se parli ancora, caccio pure tuo padre e i tuoi fratelli. Mo’ prendi sti soldi e vattenn’.” Gli aveva lanciato la busta.
Catina raccontava a voce bassa, per non farsi sentire non da noi (per lei eravamo solo due marmocchi del Nord che non capivano niente di quelle cose) ma dagli altri del paese, anche se in giro non c’era nessuno. “Dopo che è stato licenziato, Capazzappone si è messo a gridare davanti a tutti che quei tre stranieri li avrebbe ammazzati con le sue mani,” ha continuato. Nononna ha fatto di sì con la testa. “E certo, i Capazzapponi devono sempre menare le mani, se no non sono contenti,” ha detto. “Per fortuna che gli stranieri non c’erano, che zi’ Rocco li aveva mandati via. Altrimenti li ammazzavano lì direttamente. Ma tanto, pure se c’erano, non capivano...” “Capivano, capivano,” ha detto nonna. “Quelli capiscono. Ero anch’io col sindaco in Comune, quando parlavamo per la loro sistemazione. Il più anziano, quello robusto, capisce e dice pure qualcosa. Anche il ragazzo capisce. Anzi, quello capisce pure meglio. Quando Umberto il maresciallo ha proposto di tenerli in caserma s’è messo a piangere, pensava che li volessero arrestare.” Nina ha smesso di piegare i fazzoletti e io le ho dato un colpo, per non farsi scoprire non bisogna mai fermarsi. “Mo’ vediamo se Capazzappone, dopo aver perso il lavoro, non gli fa un culo tanto. Pure mio figlio Leonardo ha detto che, nella sua situazione, non ci penserebbe due volte. Raccoglierebbe un po’ di gente e li andrebbe a prendere la sera, al buio. Li porti alla fontana della Madonna Bambina e gliene dai tante che se le ricordano per tutta la vita.” “Ci manca solo che poi Umberto deve metterlo in galera,” ha detto nonna, mentre pesava un sacchetto di rafano sulla bilancia. “Allora quelli possono pure fare che sono morti. A quel punto è tutto il paese che li va a prendere, mica solo tre o quattro,” ha risposto Catina. Nononna ha spostato qualche pesetto sulla bilancia e non ha detto niente. Ma quando non risponde, vuol dire che il suo cervello si muove ancora più veloce.
16.
Noi ragazzi del paese continuavamo a trovarci per i fatti nostri, Nina con le gemelle e Pasquina. Dopo un po’ che stavamo ad Arigliana – ogni estate – io e Nina cominciavamo a considerarci del paese, ci cambiava anche l’accento, diventavamo quasi due piccoli meridionali. Io cercavo Refè, ma se c’era qualcuno che era cambiato da quando erano arrivati gli stranieri, quello era proprio lui. Era sparito. Come suo padre e quasi tutti – visto che zi’ Rocco aveva dimezzato le paghe –, Refè aveva cominciato a lavorare di più. Adesso andava nei campi pure il sabato e la domenica, per prendere meno di quanto prendeva prima. Quando tornava a casa era distrutto, era più nervoso, anzi era rabbioso. Pure Franco urlava di più: da sopra lo sentivamo e a volte sembrava che doveva strozzare Filomena. Donatino, il figlio piccolo, piangeva sempre – prima invece non piangeva mai. Quando andavo a casa sua a chiamare Refè, Filomena mi diceva che era giù ai campi, oppure che voleva essere lasciato in pace. Però io lo sapevo che non era vero: aveva cominciato a stare con Mariolino, uno dei Rapatorti. Con lui non ci era mai voluto stare, diceva che era di una mala famiglia. Già a sei anni suo padre l’aveva mandato a lavorare in campagna, e Mariolino era feroce, come tutti i Rapatorti. Refè lo aveva sempre guardato con disprezzo. Adesso invece stava solo con lui, e a me non mi voleva più vedere. Imma, una delle gemelle Lopiano, li aveva visti insieme. L’aveva detto a Pasquina, e Pasquina l’aveva detto a Nina. Dopo li avevo visti anch’io, e poi li avevano visti tutti. Stavano alla Villa, nella parte bassa dove ci sono le piante e qualche panchina, e fumavano le sigarette davanti a tutti, fregandosene di farsi vedere. Se lo incontravo vicino al lammione, Refè era pure capace di fingere che non ci fossi, oppure mi salutava veloce e tirava dritto. Se provavo a dirgli qualcosa, sputava in terra e non mi rispondeva. Poi Nina, un pomeriggio, mentre Nononno e Nononna facevano la pennichella, mi ha chiamato: “Vieni a vedere cosa fa l’orfano”.
Ogni occasione era buona per lanciare per aria Centomila gavette di ghiaccio, che non finiva mai anche se qualcosa di bello ogni tanto ce l’aveva (avevo appena scoperto che non era vero quello che mi diceva sempre papà, che se avevo freddo bastava che mi mettevo a correre più forte che potevo. Non serviva a niente, e se lo dicevano quelli che nel ghiaccio avevano fatto la guerra e gli si staccavano pure le dita delle mani e dei piedi, allora doveva essere vero). Poi sono salito di sopra. Tutte le voci che circolavano sugli stranieri dovevano essere vere: una cosa così strana in tutta la mia vita non l’avevo mai vista. L’orfano orfano era seduto dritto sullo sgabello del pianoforte scassato, con gli occhi chiusi e le braccia tese. Già volevo uscire a raccontarlo a Domenico ed Enzuccio, ma Nina mi ha fermato. “Guarda bene, Pi. Ancora non hai visto niente.” Allora ho aspettato un po’. Quello era matto. Faceva finta di suonare! Non è che teneva solo le braccia ferme sul pianoforte, se guardavi bene le muoveva a destra e a sinistra, di lato e di sopra, le alzava e poi le riabbassava sui tasti, sembrava che le mani si muovevano sopra un’onda gigante. Però da lì non usciva niente, perché il pianoforte era – per l’appunto – scassato. Teneva gli occhi chiusi, muoveva le braccia come un matto e sorrideva da solo. La musica la sentiva solo lui. Era arrivato Beethoven ad Arigliana! Non vedevo l’ora di raccontarlo a tutti, Beethoven in persona ad Arigliana, signore e signori! Si vede che i mesi che era stato in viaggio gli avevano mandato qualche rotella fuori posto, poveraccio. Quello era completamente andato. Non avrei voluto essere in lui. E però più dicevo cose così, mordendomi le labbra per non scoppiare a ridere, più Nina rimaneva seria, anzi era come nella casa di Milano quando si fissava davanti al poster di quell’attore americano con gli occhi azzurri, i capelli biondi e la faccia da angioletto. Io alle volte mia sorella non la capisco, mi sa che è stata veramente adottata. “È mezz’ora che fa così,” ha detto con una voce tutta romantica, senza staccare gli occhi da quelle mani che dietro i vetri della finestra salivano e scendevano sulle onde. Quello faceva volare le mani e sorrideva. In certi momenti chiudeva addirittura gli occhi, come i pianisti veri, quelli che fanno i
concerti; ma con quel pianoforte scassato ero capace pure io a fare finta, che ci vuole? Allora ho deciso di andarmene, per non rimanere ancora più disgustato. “Si crede di essere un pianista famoso...” ho detto mentre uscivo. Nina non ha risposto. Ma che cavolo. Ci mancava solo che, dopo avermi portato via l’attenzione di zi’ Salvatore, quello straniero si portava via pure mia sorella.
17.
Il giorno dopo sono sceso in cucina e me lo sono ritrovato in casa, pelle e ossa com’era, alto e tutto spalle, i capelli che stavano in piedi da soli da quanto erano zozzi. Addosso portava una vecchia camicia di zi’ Salvatore troppo grande per lui, e un paio di pantaloncini corti. Per poco non cacciavo un urlo e chiamavo Umberto il maresciallo per farlo arrestare subito, senza neanche il processo. Lì di fianco però c’era Nononna e, seduta al tavolo, pure Nina, e lo guardavano come se niente fosse, mentre quello aveva preso il mio posto impalato in mezzo alla stanza, a odorare il sugo che era sul fuoco e che era il mio sugo, e a farsi guardare da mia nonna e da mia sorella. Io non lo so com’è che funziona coi confini, ti giri un attimo e te li fanno sparire sotto il naso. “Credo che gli piaccia il profumo del pane,” ha detto nonna, e io già cominciavo a guardarla storta, a me sta storia della gente straniera che entra in casa nostra non mi è mai piaciuta. Stavo già pensando di andare al circolo per dirlo a Nononno, così faceva uscire tutti e tre loro di casa e rimanevamo solo io e lui a giocare a scopa, quando Nononna ha aggiunto “era fuori dalla porta, io ero appena tornata dal forno e il pane profumava, ero pure passata da Luciano il droghiere a prendere la mortadella, e quando è appena tagliata profuma assai...”. Profumava sì, e lì per lì mi è venuto in mente un racconto che ci ha fatto mille volte papà, di quando lui era piccolo e vivevano con la privazione, e avere un po’ di mortadella era un lusso. Però lui era un bambino e la voleva, e aveva fatto talmente tanti capricci che sua madre gli aveva dato due spiccioli per comprarla. Così lui era andato, poi aveva lasciato l’incarto aperto sul tavolo e mentre prendeva il pane in dispensa la mortadella era sparita: sotto il tavolo c’era un gatto di strada che si leccava i baffi. Cosa ha fatto papà, detto Gino? L’ha acciuffato e gli ha tagliato i baffi! E ha fatto bene, io a quel gattaccio gli avrei tagliato pure la coda. Quello straniero orfano orfano era come quel gatto, e io gli avrei mozzato le mani. Stava in mezzo alla cucina con le braccia incrociate perché non sapeva dove
metterle (con quella camicia grande sembrava uno che lavorava in Comune, e quei pantaloncini erano stati un paio di pantaloni lunghi che zi’ Salvatore aveva fatto sistemare), e giuro su Dio che l’avrebbe visto pure un cieco che quel ragazzino aveva una fame dell’altro mondo. “La vuoi qualcosa da mangiare?” gli ha chiesto nonna. Quello non ci ha pensato un secondo e ha fatto sì con la testa. Allora Nononna ha preso la scanata di pane da due chili ancora caldo del forno, se l’è appoggiata al petto e con una lama lunghissima ne ha fatte tre fette. “Lo volete pure voi?” ha chiesto a me e a Nina. Ma io ero troppo arrabbiato e non ho risposto, il pane con quello non lo volevo dividere. Nina ha fatto di no con la testa, era troppo impegnata a non staccare gli occhi dallo spilungone con lo sguardo di fuoco che si credeva di essere Beethoven. Nonna ha appoggiato il pane su uno strofinaccio pulito, dal frigorifero ha preso la mortadella e gli ha messo tutto sotto il naso. Quello per poco non si mangiava pure il tavolo. Non avevo mai visto nessuno divorare con quella furia, senza quasi masticare. Io e Nina lo guardavamo stupiti, nonna lo fissava preoccupata. “Piano, piano,” gli diceva, “se no ti strozzi.” Ma quello non ascoltava. Mangiava e basta. È riuscito a fare fuori mezza scanata di pane da due chili, tutta la mortadella, metà scamorza, le olive e pure il salame piccante fatto da nonna, che cosa più buona al mondo non esiste. Nononna gli ha chiesto se aveva ancora fame, ma era una battuta, perché era impossibile che ne aveva ancora. Invece quello ha risposto di sì, e continuava a sbattere la testa su e giù, sembrava un picchio. Allora nonna ha preso un po’ di sugo di carne dal fuoco, dove stava finendo di cuocere, e ha tagliato altro pane. L’orfano ha spazzolato tutto. Mangiava come un animale, non era una fame da umano quella. “Che c’è, zi’ Salvatore non ti dà da mangiare?” gli ha chiesto nonna. L’orfano orfano non ha risposto, aveva la bocca troppo piena, e quando la bocca è piena le orecchie non funzionano. “Da quanto è che non mangi in grazia di Dio?” gli ha chiesto ancora Nononna. Lo straniero l’ha guardata come se fosse una colomba e lui un’aquila. Se non stava attenta si mangiava pure lei, mannaggia a lui! Poi ha fatto cinque con le dita. “Cinque giorni,” ho detto io. “E vabbe’...”
L’orfano ha fatto no con la testa, mentre finiva di masticare. “Cinque mesi?” ha chiesto nonna. L’orfano ha fatto sì. “Da quando noi partiti.” La nostra lingua la sapeva parlare. Il pendolo in sala ha suonato dodici volte e mezzo. Nononna è saltata sulla sedia. “Vai, vai adesso, giovanotto... Arriva Nunzio, ed è meglio se non ti trova.” In effetti, se Nononno lo trovava lì probabilmente lo ammazzava. Prima che se ne andasse, Nina ha chiamato a raccolta tutto il coraggio, lo ha fissato e gli ha chiesto “come ti chiami?”. Lui non ha risposto. Allora ha ripetuto la domanda con le mani “io-Nina-qual-è-il-tuo-nome?”, e ha fatto una specie di sagoma di uomo nell’aria indicandogli poi il petto. “Josh,” ha detto lui. “Mi chiamo Josh.” Allora Nina è scappata su per le scale. Quello, con la pancia piena, se n’è tornato da zi’ Salvatore. Il pomeriggio nonna ci ha chiesto di accompagnarla da zi’ Salvatore, che come sempre era sulla sedia davanti alla porta di casa, col bastone appoggiato a terra, a fissare il muro e ad affinare la memoria. “Zi’ Salvato’, buonasera.” “Buonasera, zi’ Beatri’.” “Vi posso domandare una cosa, zi’ Salvato’?” “E come...”, che voleva dire “certo”. “Ma che gli date da mangiare al ragazzino, si può sapere?” “Lo stesso che mangio io, si capisce. Niente di meno!” ha esclamato zi’ Salvatore. Quando veniva interrogato non faceva la voce di velluto, gli veniva rauca come se fumava cento sigarette al giorno, ma non ne fumava neanche una. Nononna ha alzato gli occhi al cielo. “E che avete mangiato ieri sera per cena, zi’ Salvato’? Tanto per capire...” Zi’ Salvatore ci ha pensato un minuto o due, forse tre. “Non me lo ricordo, zi’ Beatri’. Se volete vi dico cosa ho mangiato il giorno che mi sono sposato, a Bruclino. Le cose vecchie ce le ho tutte qua...”, e si è toccato la tempia. “Se ci pensate un pochino sono sicura che vi ricordate.” Il vecchio si è sforzato, a un certo punto seduto com’era ho pensato che magari si era pure cacato sotto. “Ah, sì!” Era davvero molto felice.
“Dite.” “Un caco.” “Il frutto?” “Eh, zi’ Beatri’, un caco. Quello è.” “Ma solo quello?” “Ma era nu bell’ cachis”, e con le mani zi’ Salvatore ha fatto la forma di un pallone da calcio, voleva dire che era un caco molto grande. Nonna ha scosso la testa. “Il ragazzo deve mangiare,” ha detto. “Come?” C’aveva molti problemi di udito, povero zi’ Salvatore. “Quello è un ragazzo, zi’ Salvato’.” “Eh, un ragazzo, sì...” “Deve mangiare.” Ma zi’ Salvatore piano piano si è girato verso il muro, perché il muro doveva avergli detto qualcosa. Ormai si era imbambolato, quella era la sua espressione stupita. Non c’era più niente da fare, ce ne siamo tornati a casa.
18.
Josh non usciva mai di casa, e se usciva era solo per fare qualche commissione per zi’ Salvatore. Se ne stava sempre chiuso, al massimo si metteva al pianoforte e faceva finta di suonare. Andava dal droghiere e diceva “carta”, e Lino, il figlio di Maria e Luciano della drogheria, lo guardava da dietro il banco con gli occhi spalancati, come se arrivasse da un altro pianeta, e gli vendeva una confezione di carta igienica. Veniva alla bottega di Nononna e diceva “sale” e Nononna o Nina gli passavano il sale. Andava da Peppino, diceva “gelato” e lui gli avvolgeva nella carta rosa due Coppe del Nonno e aggiungeva pure un Magnum come regalo. Io e Nina spiavamo dalla finestra della camera la porta di casa di zi’ Salvatore (se per sbaglio passava la morte se lo prendeva, perché doveva pensare che la stava aspettando, visto che era sempre seduto su quella sedia), volevamo vedere se per caso qualcosa succedeva e l’orfano orfano usciva. Un pomeriggio l’abbiamo visto venire fuori, alto e un po’ sbilenco com’era, e siamo corsi in piazza a cercare gli altri. Sulla porta del bar di Peppino c’erano Refè e Mariolino. Refè mi ha guardato di lato come un lupo. Poi hanno capito che c’era qualcosa che riguardava lo straniero, e stranamente sono venuti appresso a noi. In cima alla salita che dalla piazza portava alle nostre case ci siamo appoggiati al muro, da un lato e dell’altro della via. Le grandi pietre della strada avevano accumulato il calore del mezzogiorno, e ancora scottavano. Non avevamo niente da fare, guardare lo straniero che tornava a casa con i pacchetti in mano ci sembrava un passatempo. Lui ci ha visti da lontano, e subito gli sono venuti gli occhi piccoli dei conigli quando Nononna li solleva per le orecchie. Gli facevamo paura. Però il brutto è che quando c’è uno che gli fai paura finisce che ti senti spaventoso veramente, e puoi diventare cattivo. Ma il ragazzo Josh era coraggioso. Si è fermato, ha tirato il fiato e si è stretto al petto il sacchetto che teneva tra le mani. Poi è passato, la testa bassa e gli occhi fissi a terra, in mezzo ai nostri sguardi. Allora Refè gli ha gridato “buh!”, per farlo spaventare. Poi gli ha urlato contro,
fingendo di parlare col suo amico, “che schifo, puzza da lontano, sembra un maiale quando caca”. Mariolino si è messo a ridere, noi no. Josh ha accelerato il passo. “Corri, corri coniglio,” ha detto Refè. “Basta che non vai a chiamare altri come te, che qua ad Arigliana per voi non c’è posto.” Quando è passato sotto il palazzo della Menzasignor, lo straniero ha accelerato ancora di più. Quindi è arrivato in fondo alla via e ha svoltato a destra, verso la casa di zi’ Salvatore. “Statti zitto, Refè,” ha detto Nina, e io non lo so da dove era uscita quella sorella. “Pure i tuoi zii sono emigrati, quelli che sono andati in Australia. Pensa ai fatti tuoi, che c’entra lui?” gli ha gridato contro. Lui l’ha guardata con la testa piegata. “Signorine’, non è che quel maiale ci piace un po’, eh...?”, poi è scoppiato a ridere. Mariolino ha fatto il verso del maiale col naso “oink, oink, oink”. “Ma che dici, statti zitto,” ha risposto Nina. “Pensa a te...” “Lo so che questi fanno quello che abbiamo fatto noi,” ha detto Refè puntando l’indice contro il suo petto, “solo che loro sono cattivi, invece noi siamo lavoratori.” Le ha fatto vedere le mani sporche e piene di calli. “Noi andiamo nei posti dove c’è lavoro, questi vengono qua dove non ce n’è manco per noi... Ci vogliono rubare il poco che abbiamo, sti maiali... Ma ci deve provare. Lo ammazzo con queste mani, cudd’ mezz’ ricchion’.” Siamo stati tutti zitti. Nina ancora un po’ si metteva a frignare. Nessuno aveva mai sentito Refè parlare così, tranne Mariolino, che infatti è stato l’unico a dargli ragione. “Io ti aiuto,” ha detto quel bambinetto nero di terra, gli occhi gli brillavano dall’eccitazione. Erano due lupi, non solo Refè. “Questi credono di venire ad Arigliana a fare quello che vogliono. Mio padre mo’ lavora il doppio e prende uguale, per colpa di sti pezzenti schifosi. Dobbiamo ucciderli uno a uno, a questi sette.” Nina ha guardato Valeria la gemella, e Valeria ha fatto no con la testa, poi ha detto “non starlo a sentire, è solo un bambino che pascola le pecore”, perché Valeria era già grande, aveva la mia età. Però Mariolino aveva la terra fin sotto le unghie, e la faccia sporca di fango, e gli scarponi ricoperti di uno strato indurito di melma, e aveva una camicia scozzese che gli stava piccola e un paio di jeans tenuti da una cintura con l’ultimo buco mezzo metro più stretto di quelli veri, e a vederlo così sembrava uno già grande. Valeria, solo la figlia di un giudice. “Che parl’ tu?” Il Rapatorto si è girato verso di lei e Nina, perché quando uno
ha lavorato si sente di poter parlare con chiunque, pure con un re in persona. “Che dici alla tua amica milanese? Parlate di borsette? O di profumi? Che ne sai tu di andare for’ e di come si fa la terra?” “Ne so più assai di te!” ha risposto Valeria, ed è diventata rossa dalla rabbia. “Mio padre e mio nonno hanno fatto mille processi per le terre.” “E com’ no,” ha detto Refè, che stava sempre appoggiato al muro, “dalle stanze del tribunale, a Matera. Pure quello contro zi’ Rocco avete fatto, è vero? Voi la terra non sapete manco che colore ha, aprite la bocca a vuoto. Vat’ sta zitt’.” Poi si è fermato e ha guardato Valeria dritto negli occhi, con una violenza che era troppa dentro a un bambino, e sembrava che doveva scoppiare. Si è avvicinato, e pure a lei ha piantato l’indice in mezzo al petto. “Quelli è a noi che ci tolgono il lavoro, e poi la casa ad affitto, pure quello schifo di lammione, mica a te e a tuo padre. Quindi fatti i cazzi tuoi, che chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni. Io e Mariolino a quello l’amma fa’ vede’”, ed è tornato a guardare di lato. “Vedete se non lo facciamo pentire di essere venuto.” Nessuno ha parlato. Refè aveva ragione. Valeria e Imma hanno abbassato la testa e se ne sono andate, zitte zitte. Il processo contro zi’ Rocco, che aveva avvelenato le terre e rovinato la vita di Arigliana, nessun giudice l’aveva mai fatto. Neanche il giudice Lopiano. Io ho cercato di balbettare qualcosa, ma Refè mi ha freddato. “Statt’ zitt’ tu, che sta merda è tutta colpa tua. T’avess’ vergogna’. E tornatene una volta per tutte in quel cesso di Milano da dov’ si’ venut’.” Poi mi ha guardato fisso, per farmi male. “Non l’hai ancora capito che qua nessuno ti ha mai voluto?” Aveva ragione: io non ero un emigrato meridionale e non ero uno straniero. Ero solo figlio dell’emigrazione. A volte neanch’io mi volevo, però non potevo scappare.
19.
Io e Nina passavamo le giornate in casa. Quel pomeriggio leggevo come al solito Centomila gavette di ghiaccio e lei aveva iniziato il suo quarto libro da quando eravamo arrivati (era Oliver Twist, e la faceva divertire molto, ma a volte frignava pure, a seconda delle parti, e quello sì che era un libro che avrei voluto leggere anch’io), all’improvviso abbiamo sentito gridare, solo che all’inizio non ci abbiamo neanche fatto caso, perché in quel periodo ad Arigliana gridavano tutti, non si faceva altro che urlare e spaccare cose. Poi però le grida si avvicinavano, perciò abbiamo lasciato i libri sul letto e ci siamo affacciati alla finestra. È stato allora che abbiamo sentito lo sparo, e come l’abbiamo sentito noi l’hanno sentito tutti, perché è stato proprio forte. Sotto casa erano già usciti Nononno e altre persone. “Era un fucile,” ha detto nonno, che ogni volta che parlava di armi ringiovaniva in un colpo solo di quaranta o cinquant’anni (nel fondo dell’armadio teneva una vecchia pistola, e però questa cosa non si poteva dire a nessuno, mi aveva fatto giurare di non raccontarlo mai. Una volta me l’aveva pure fatta vedere, ma solo per fare lo spaccone, poi l’aveva messa via). “Arrivava da su, arrivava da su,” continuava a ripetere e puntava il braccio, e intendeva dalla parte alta del paese. “Sì, dalle grotte,” ha detto Giuseppe, il padre di Domenico, uscito dal laboratorio da falegname che aveva lì vicino, e stava pure lui in mezzo alla via. Intanto la gente usciva sulle porte delle case per capire cosa era successo, e si metteva a parlare. E più gente parlava, più gente usciva per strada. Allora tutti si sono incamminati per i vicoli che salivano alla piazza superiore, alle grotte dove si teneva il vino e alla garamm’, ma di tracce di sparatorie in giro non ce n’erano. Nononna era agitata, e faceva su e giù per la stradina davanti a casa. Nononno invece era pieno di energia. Persino zi’ Salvatore era rinvigorito, si era girato verso la via e aveva smesso di fissare il muro. Pure io sono uscito e sono andato in giro a vedere se scoprivo qualcosa, perché
di stare a casa mi ero veramente seccato, e ogni scusa andava bene. Ho preso la strada tra i vicoletti che salivano, e sono finito su alle grotte. Nella piazzetta sopra il paese si erano radunate un bel po’ di persone. Tutti guardavano a destra e a sinistra, si affacciavano dalla ringhiera che dava nella valle, ma nessuno trovava niente. Chiamavano ad alta voce, come se qualcuno potesse rispondere. Di botti, comunque, non ne sono più arrivati. Uno alla volta se ne sono andati, e ognuno è tornato alle sue occupazioni. Io invece sono rimasto, a casa non ci volevo tornare. Di fianco al portone di un palazzo disabitato da anni c’era una grata di ferro che sembrava quella di una prigione. Non era alta più di un metro. Sotto era stata tranciata, erano rimasti gli spuntoni aguzzi e arrugginiti. Era solo uno scolo per le acque piovane, un passaggio per topi e altri animali, arrivava direttamente sul retro di quel vecchio palazzo. Quando eravamo piccoli, io e Refè ci infilavamo là dentro. Bisognava appiattirsi per terra e strisciare, stando attenti che la maglietta non si impigliasse nei ferri. Una volta ci avevamo tenuto anche tre gattini neonati rubati da una cesta di zi’ Concetta, per qualche giorno avevamo quasi vissuto con loro, gli davamo il latte, li facevamo giocare. Poi Refè se n’era portato uno a casa, anch’io volevo portarmene uno, ma non potevo perché se no Nononna lo restituiva a zi’ Concetta. Allora gli altri due li avevamo regalati a Giovannino. Era un sacco di tempo che non strisciavo lì dentro. Volevo vedere se ci entravo ancora. Mi sono messo a pancia a terra e mi sono infilato dai piedi, facendo attenzione a non fare impigliare la maglietta. Sembrava che dentro non c’era niente, perché era completamente buio, e invece ricordavo benissimo. Ho seguito il muro guidandomi con la mano e ho trovato l’apertura sulla destra: una porta scavata nel muro. C’era un cunicolo che scendeva e diventava sotterraneo, conduceva al retro di una delle grotte abbandonate. Sono sceso. Mi sembrava come quando io e Refè eravamo piccoli, l’unica cosa che facevamo era inventarci le avventure. La grotta era enorme, la volta di pietra altissima. All’inizio non vedevo niente. Poi ho visto. Sul fondo c’erano tre sagome immobili. Dopo è arrivata una voce. Era quella di Refè. Contro il muro c’era Josh lo straniero, e quei lupi di Refè e Mariolino lo tenevano per il collo. Josh era più alto, ma quelli erano due.
Refè in una mano stringeva la lupara di suo padre, quella che Franco nascondeva nel casolare in campagna. Doveva essere diventato pazzo per davvero. “Mo t’amm’ accid’,” diceva Refè. Gridava, e ogni parola rimbombava tra i muri di pietra. Allora, come il dottor Serri in Centomila gavette di ghiaccio, quando nel freddo della steppa sente arrivare i carri dei russi, piano piano sono andato a ripararmi dietro una sporgenza di tufo da cui vedevo tutto. Refè inchiodava Josh al muro e diceva che era colpa sua e della sua famiglia se tutti lavoravano il doppio per guadagnare uguale e se ogni cosa al paese andava a farsi fottere. Josh non fiatava. Li dominava in altezza, ma era in trappola. Poi Refè ha detto a Mariolino di tenerlo fermo e si è allontanato di qualche passo. Ha alzato la lupara, l’ha puntata verso Josh. E ha sparato. Buuum. Io mi sono afferrato al sacchettino che portavo al collo. Dentro il rumore dello sparo è esploso, fortissimo, l’“aaah” di Josh. Mariolino l’ha mollato, e lo straniero si è accasciato a terra. L’ha ammazzato, ho pensato. Quel pazzo di Refè ha ucciso lo straniero. Però nella parete di tufo della grotta c’era un buco, proprio sopra dove era stata la testa di Josh, e si stava ancora sbriciolando. Aveva mirato alto. Come Italo Serri sul fronte russo, nel rimbombo che aveva lasciato un silenzio assordante, sono scappato fuori. Refè era pazzo, e io mi volevo vendicare. Di lui, del suo disprezzo, del silenzio che durava da settimane. Non c’era occasione migliore. Non era colpa mia se avevo trovato gli stranieri nella torre, non l’avevo fatto apposta. Gliel’avrei fatta vedere io. Se Refè lo scopriva mi uccideva. I suoi occhi li conoscevo benissimo. Il Rapatorto gli faceva male. Sono andato a cercare Domenico. Era al laboratorio dei suoi, stavano restaurando un cassettone con le maniglie ricciolute. L’ho chiamato fuori e gli ho raccontato cosa avevo visto. Senza dire niente a suo padre, siamo saltati sulla Vespa e siamo andati in campagna a chiamare Franco, il padre di Refè, alla Masseria Lucania. Altro di meglio da fare non abbiamo trovato. Franco era dentro il capannone principale, stava sistemando una macchina che avvita i coperchi ai barattoli di vetro. Dopo che Domenico gli ha parlato, Franco
ha detto qualcosa ai compagni, poi è andato nella casetta di legno a controllare: il fucile non c’era. È salito sul treruote e ci ha seguiti per la strada che saliva al paese, e dal paese si arrampicava alle grotte. Franco e Domenico dalla grata non ci entravano, erano troppo adulti. Allora abbiamo fatto il giro degli edifici, passando dalla piazza alta, e ci siamo ritrovati davanti al portone di legno della grotta abbandonata. C’era una catena di ferro e un grande lucchetto arrugginito che chissà da quanto tempo nessuno toccava. Franco è andato al cassone del treruote. Ha cercato un martello e con qualche colpo ha spaccato il lucchetto. Refè, Josh e Mariolino erano al centro della grande cantina, contro il muro laterale, adesso inondati dalla luce che entrava dal portone. Lo straniero era sdraiato per terra, lo stavano picchiando a calci e pugni. Refè si è voltato e poi non si è mosso, paralizzato. Mi ha lanciato un’occhiata da lupo, gli è bastato un istante per capire che avevo fatto la spia. Mariolino aveva la solita faccia impertinente. Franco è andato dal figlio e con un solo gesto gli ha strappato il fucile dalle mani. Poi gliene ha date tante, le mani erano pale che roteavano: sulla schiena, sulle gambe, sulla faccia, sul cranio senza capelli. Lì davanti a noi. In confronto a suo padre Refè era così piccolo. Franco lo sollevava da terra, quando lui cercava di opporre resistenza, e lo scaraventava lontano. Poi lo raggiungeva, e gliene dava ancora. E ancora. Refè tremava, si proteggeva con le mani davanti alla faccia. Si vedeva che era ancora un bambino piccolo. Alla fine il lupo è tornato cucciolo. Dopo un po’ non ha potuto farne a meno, e si è pure messo a frignare. Lo straniero per tutto il tempo era rimasto accucciato per terra, la testa nascosta tra le ginocchia. Non aveva nemmeno visto il padre che puniva il figlio.
20.
Poi per fortuna si avvicinava la festa dell’Unità, e tutto il paese doveva essere felice come ogni anno: c’erano le salsicce più buone del mondo e il gioco del maialino che sceglieva la scatola in cui entrare. Tutti in paese si davano da fare per i preparativi, c’era chi montava il palco in piazza, chi metteva le luminarie, chi portava le casse di amplificazione e allestiva i tendoni per il cibo. Papà telefonava tutti i giorni, la festa dell’Unità per lui era la cosa più bella che c’era, e siccome non poteva essere ad Arigliana, si faceva raccontare i preparativi da noi. Lui e Nina potevano stare al telefono anche due ore di fila, a parlare fitto fitto. In una vietta deserta che porta alla piazza dell’Orologio, un pomeriggio avevo incrociato Refè. Dopo le mazzate di Franco, tutto il paese aveva saputo cosa aveva fatto: rubare il fucile per ammazzare lo straniero. “L’avesse ammazzato veramente,” avevo sentito dire a Pesciolino al bar di Peppino. “Almeno si faceva grande tutto in una volta. Invece c’ha solo abbuscat’ mazzat’.” Tutti si erano messi a ridere. “È criatur’, che vu’ fa’,” aveva risposto il Capazzappone, che da quando non lavorava più passava le giornate al bar a bere amaro Lucano e a giocare a carte. Refè, per la vergogna, quando non lavorava, usciva ancora meno. La gente per strada lo sfotteva. “’U cowboy” lo chiamavano. “Clint Istvùùd!” l’aveva preso in giro Domenico, una volta che era passato davanti al lammione in sella alla Vespa, tanto sapeva che Refè stava chiuso dentro. Io, dalla camera dei Nononni, avevo sentito. Quando ci eravamo incrociati, Refè portava ancora in faccia i segni delle botte di suo padre, aveva un occhio pesto e dei lividi in testa. Mi sono fermato. Mi ero vendicato, ma lui come poteva esserne sicuro? Mentre camminava nella mia direzione con la testa bassa e i passi pesanti, l’avevo salutato come se tutto fosse normale. “Refè.” Lui si era fermato, proprio di fronte a me. Un attimo. Aveva girato la testa e mi aveva guardato come se fossi una cosa da niente, un maiale, una scrofa. Era sempre un Sanaporce’.
“Tu per me si’ murt’,” aveva detto. Mi aveva fissato in un lampo violentissimo, con una furia terribile. “Murt’,” aveva ripetuto. “Non ti fare più vedere. Se no t’accid’.” E se n’era andato. Ero tornato a casa triste. Avevo perso Refè, il mio migliore amico di Arigliana. L’avevo venduto alle mazzate di suo padre, alla vergogna che ad Arigliana non si cancella, perché lui mi aveva lasciato solo. Magari gli rimaneva addosso un nuovo soprannome, dopo il casino che aveva combinato: Istvùd. Era possibile che se lo portava dietro finché moriva. Stavo sdraiato sul letto e pensavo. Dovevo trovare qualcosa che ci facesse fare pace. Qualcosa di grande come quello per cui l’avevo venduto. Qualcosa di grandissimo. Mi sono alzato a sedere di scatto. Avevo la cosa più grande di tutte. Di corsa sono sceso per le scale. Sono uscito e sono passato davanti a casa di zi’ Salvatore, ma come al solito stava imbambolato davanti al muro e non mi ha nemmeno visto. Allora ho proseguito fino a casa di Mariolino, in fondo alla stessa stradina. Davanti alla porta, dalla strada, l’ho chiamato. “Marie’! Mario!” Da una finestra si è affacciata la sorella grande, da un’altra finestra la nonna. Erano uguali, due avvoltoi a caccia. “Che vuoi?” ha chiesto la sorella. Aveva i capelli unti, la faccia piena di brufoli e i denti gialli. Da dietro, come un’ombra, è comparsa pure la mamma, la Rapatorta con il ghigno da diavolessa. Quando ha visto che ero solo un bambino, è tornata dentro. “Voglio parlare con Refè,” ho risposto guardando in su. “Non c’è,” ha detto la sorella. “Lo so che c’è.” “E che ne sai tu?” “Sta sempre qua quando non lavora.” “Chi te le dice queste cose?” “Le so da solo.” Lei masticava una gomma e ha fatto un palloncino. “C’è, c’è...” Da lontano è arrivata una voce un po’ di velluto. Mi sono girato, e zi’ Salvatore, seduto in punta alla sedia, reggeva il bastone puntato contro la
finestra di quella là. “È dentro, l’ho visto io quando arrivava. È passato da qua,” ha detto zi’ Salvatore. “Voi ci vedete pure?” ha chiesto la Rapatorta. “Meglio di te,” ha risposto zi’ Salvatore. “Fai entrare il ragazzo.” Quella ci ha pensato un po’. Poi è rientrata in casa, e mentre chiudeva la persiana ha detto “muoviti, vieni”. La casa faceva schifo, puzzava di piscio di cane e di gatto. Refè stava sdraiato sul divano insieme a Mariolino, guardavano la televisione e mangiavano pane e pomodoro. Il Rapatorto mi ha fulminato. Refè ha fatto finta di non vedermi, è rimasto girato verso la tv. Masticava. “Vieni fuori, ti devo dire un segreto,” gli ho detto. “Dillo qua,” ha risposto Mariolino. “Deve sentire solo Refè.” “E perché?” “Perché il segreto è mio e a chi lo dico lo decido io.” “E che segreto è?” “È un segreto importante. A te non te lo dico.” “Seee, importante,” ha detto Mariolino. “Non importante. Importantissimo.” Ho fatto una pausa. “Sullo straniero.” Allora Refè si è tirato su, e mi ha pure guardato con la coda dell’occhio. Ha visto che non mi muovevo e ha parlato. “Devi dire che tipo di segreto è, se no non vengo.” Ci ho pensato un momento. “È grosso. Lo potete fare fuori.” “Dillo qua,” ha ripetuto il Rapatorto. “No.” Allora Refè ha stretto i denti e controvoglia si è alzato. A Mariolino ha detto “mo’ vengo”. “Do’ vai? Vengo pure io,” ha detto Mariolino. “È roba nostra,” ha detto Refè. “Fatti gli affari tuoi.” Mi sono girato verso Refè, ero pieno di gioia. Allora si ricordava ancora chi ero, tutto quello che avevamo fatto insieme da quando eravamo nati. Ma Refè, a me, non mi ha guardato. Fuori, sotto il sole, Refè non mi fissava manco negli occhi, giocava con un elastico che aveva in mano. “Embè?” ha detto. “Muvt’.” “Ho il modo per liberarti dello straniero senza che lo ammazzi. Se lo vedono
tutti che è pazzo, il dottor Vitti lo deve rinchiudere per forza.”
21.
Dopo pranzo, mentre i Nononni facevano la pennichella, ho lasciato il portone aperto. Refè è arrivato puntuale, come la campana della piazza dell’Orologio. Senza far rumore per non svegliare i nonni, siamo saliti in camera. Refè ha spostato la sedia sotto la finestra come faceva Nina, perché era basso quanto un bambino, anche se sembrava grande, e con quell’occhio viola ancora di più. Siamo rimasti un po’ a guardare fuori. Però quel giorno non succedeva niente. “Dicit’ cazzat’,” ha detto Refè, stufo di aspettare. “Quello dorme e basta.” Josh era sdraiato sul letto. Anche lui aveva i lividi in faccia, per le botte prese da Refè e Mariolino. “Ma non lo vedi che legge?” ha detto Nina. “Embè? Sta sdraiato sul letto, è come se dorme.” “E certo, per te che non sai manco leggere.” Nina era una linguacciuta peggio di me. “So leggere, e so pure scrivere. Il mio nome. Raffaele.” In quel momento Josh finalmente si è alzato. Si è premuto una mano sulle costole, si vede che gli facevano male per le mazzate, poveraccio. Poi è andato a sedersi sullo sgabello. “Mo’ suona, mo’ suona,” ho detto. “Shhh, zitti,” ha detto Nina. “Ma quale suona, quel coso è scassato...” Tutti in paese sapevano che zi’ Salvatore teneva in casa il pianoforte scassato di suo padre. “Suona, suona,” ha detto Nina. Lo straniero ha chiuso gli occhi e ha cominciato a suonare. Le mani volavano sulle onde, gli occhi salivano alle stelle, e la testa galleggiava dentro una vasca da bagno piena di schiuma. “Hai visto?” ho chiesto, mentre quello non si fermava un attimo sui tasti. “Shhh,” faceva Nina, che non si voleva perdere neanche una nota. “Ma se io non sento niente,” ha detto Refè. Però si vedeva che stava un po’
imbambolato pure lui, perché a fissare uno che fa finta per tanto tempo poi credi che è vero. Dopo un po’ Refè si è risvegliato. “Qua è assai il danno,” ha detto. “Quello è pazzo nella testa, sentite a me.” “Che ti avevo detto?” ho sorriso. Il mio segreto era un segreto grande. Nina mi ha guardato storto. Refè mi ha fissato con la faccia da lupo. “Dobbiamo fare che suona davanti a tutti,” ha detto. “Tutto il paese lo deve vedere che è pazzo. Il dottor Vitti lo deve prendere e lo deve rinchiudere nell’ospedale dei matti di Matera, perché quello è pericoloso, quanto è vera la Madonna. Così ce lo togliamo di mezzo una volta per tutte, lui e tutta la sua famiglia. E ad Arigliana possiamo tornare a stare in grazia di Dio.” Per Nina era ovvio che lo straniero sapeva suonare anche un pianoforte vero. Per me invece aveva le rotelle fuori posto. L’unico modo per scoprirlo era metterlo davanti a uno strumento come si deve. Allora abbiamo cercato in tutti i modi di convincere Nononna a chiedere a suo nipote il sindaco se alla festa dell’Unità mettevano un pianoforte sul palco, tanto di sicuro c’era la banda, e anche il gruppo del liscio, e magari usavano pure il pianoforte. È stata proprio Nina a chiederlo, eravamo al magazzino e caricavamo i nuovi arrivi. “Nono’, abbiamo avuto un’idea stupenda,” ha detto. “Quanto sarebbe bello se ci fosse un pianoforte, per una volta, alla festa dell’Unità... Perché non lo chiedi a Ninuccio il sindaco? È tuo nipote, non ti può dire di no.” Nonna ha fatto finta di niente. “I saponi prendeteli dopo,” ha risposto. “Prima dobbiamo finire quelli vecchi.” Allora ci siamo messi d’impegno. Per ogni cosa che nonna ci chiedeva, noi rispondevamo “sì nonna, però solo se mettete un pianoforte per la festa dell’Unità”, “va bene, ma soltanto se alla festa c’è il pianoforte...”, “lo faccio io, nonna, però alla festa dell’Unità ci dev’essere un pianoforte!”. L’abbiamo presa per sfinimento. In cambio, abbiamo promesso che ogni giorno avremmo spolverato con il piumino. “La tua casa scintillerà. Da adesso per i secoli dei secoli,” ha detto Nina. Nononna è buona, e si è lasciata convincere. Il lunedì dopo, a pranzo con il sindaco e don Eustachio, ne ha parlato.
Noi Ninuccio non l’abbiamo neanche lasciato pensare, abbiamo subito detto che sarebbe stato bellissimo per i bambini di Arigliana avere un pianoforte; una volta tanto, si poteva organizzare una gara musicale, oppure una gara di ballo con qualcuno che suonava, e un sacco di cose di questo tipo. A inventare non ci batteva nessuno. Poi io e Nina, zitti zitti, siamo andati al magazzino e abbiamo preso la grappa buona, anche se il giudice Lopiano non c’era. Sapevamo benissimo dove nonna la nascondeva, per non farla bere a nonno. Quando l’ha vista, don Eustachio era al settimo cielo. Nononna invece ci guardava come se volesse mangiarci, ma a quel punto non poteva più dire niente. Così Ninuccio, mentre beveva, ha detto: “Forse si potrebbe invitare un pianista di Matera specializzato in musiche della tradizione lucana... Pure il maestro della banda potrebbe essere contento di una novità, una volta tanto. E quest’anno ce n’è bisogno”. Don Eustachio, che aveva bevuto due bicchierini di grappa, ha iniziato a scaldarsi. “Ma certo!” ha esclamato. “Bravissimi, ragazzi! Fa bene un cambiamento, dopo tanti anni. Avete avuto un’idea meravigliosa!” E si è versato il terzo bicchierino. Il primo giorno della festa, la piazza era addobbata come a Natale. C’erano tante di quelle luci che sembrava giorno. Dalla cima della torre partivano fili di luminarie colorate che arrivavano fino al palazzo del Comune; il bar di Peppino strabordava, per giocare a biliardino la fila era di venti ragazzi; c’erano bancarelle lungo tutta la via Appia, la strada che si staccava dall’antica via romana ed entrava in paese. C’era la tombolata dove si vinceva l’agnello; i tavoli da ping-pong con le reti afflosciate; l’angolo discoteca per i ragazzi grandi, e mille altri giochi che nemmeno me li ricordo tutti. La festa durava cinque giorni e lo straniero doveva suonare l’ultimo, dopo l’arrivo del pianoforte e del pianista da Matera. Eravamo felici. La gente si era persino dimenticata che il paese era stato invaso dagli stranieri e che adesso lavorava il doppio per la stessa paga. In quei cinque giorni era vietato pensare ai problemi. Si divertivano tutti, tranne gli stranieri. Si mettevano in cima alla salita che portava alle case – al posto di Nononno, per intenderci –, e guardavano da lontano. Per scendere in piazza, ogni sera Josh passava di fianco a loro, con zi’
Salvatore sotto braccio. Due zoppi che si tenevano in equilibrio l’uno con l’altro. Lo straniero zoppicava per le botte. Zi’ Salvatore invece stringeva il bastone. Come ogni anno, zi’ Salvatore aveva tirato fuori un completo degli anni sessanta che puzzava di naftalina, ma faceva la sua figura. A Josh aveva dato la camicia bianca di quando si era sposato: era elegantissimo, anche se gli cadeva larga. Ogni sera, all’altezza degli stranieri si fermavano, così Josh parlava un po’ con i suoi zii e le sue zie. Zi’ Salvatore si appoggiava al muro e li guardava. Quelli si abbracciavano a lungo, le zie allisciavano la camicia di Josh o gli sistemavano la massa informe dei capelli, la nonna gli accarezzava gli zigomi dove aveva i lividi neri, e scuoteva la testa. Lui si faceva stringere e sbaciucchiare. Poi gli dicevano qualche parola dolce, e le donne piagnucolavano. Dopo un po’ si salutavano. Josh proseguiva. Insieme al vecchio andava a mischiarsi tra la folla. Le persone, quando gli passavano di fianco, gli sorridevano: la verità è che poteva pure essere all’altro mondo. Gli stranieri suoi parenti invece rimanevano là sopra, sempre ai margini di quello che succedeva ad Arigliana. Sapevano che la gente non li avrebbe mai voluti. Così evitavano problemi, e partecipavano a quella gioia da lontano: la vivevano di riflesso, negli occhi del nipote o nel baccano degli altri. Guardavano Josh e il vecchio proseguire verso la piazza, si sedevano sui gradini della salita e, ognuno per conto suo, si tenevano la testa tra le mani e sognavano. Quella strana coppia di nuovi parenti, invece, si metteva seduta vicino alla chiesa madre e guardava. Però più lo osservavo, più mi rendevo conto che zi’ Salvatore era troppo vecchio, e si andava rovinando. Dovevo intervenire io. Il giorno prima, dentro un libro, avevo trovato una poesia scritta da uno che si chiamava Cesare Pavese, e l’avevo ricopiata sul quaderno dove zi’ Salvatore mi aveva consigliato di appuntare le cose. Quella poesia parlava proprio di lui. Allora l’avevo imparata a memoria, e poi avevo strappato il foglio, perché volevo fare bella figura e non si sa mai. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. Allora l’ho raggiunto all’angolo della chiesa. Lui e Josh stavano seduti su due sedie di paglia.
Lo straniero mi ha guardato sospettoso, si vedeva che era geloso del mio amico vecchio. Senza degnarlo, ho messo un braccio attorno alle spalle di zi’ Salvatore, mi sono abbassato fino a suo orecchio e ho sussurrato: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insomma... sorda, come un vecchio morso o un... un... vizio... assurdo!”. Lui ha arricciato il naso e ha scosso la testa. Non ci aveva capito niente. Allora gliel’ho ripetuta tutta di filato, però ho urlato come dentro a un megafono, che era il suo orecchio peloso. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insomma, sorda come il morso di un ciuccio assurdo!” Zi’ Salvatore mi ha guardato da sotto, con i piccoli occhi grigi spaurati. Poi ha detto “bravo, bravo”, e intanto con la mano mi batteva sul braccio. “Te la sei scritta nel quaderno, William?” Era proprio andato. “Questa è bella... Questa è proprio bella.” Ho fatto sì con la testa e ho cacciato fuori dalla tasca il foglio strappato. “Eccolo,” ho detto. “Bravo, così si fa.” Però, mentre parlava, gli occhi gli diventavano sempre più lucidi, e non era per i fari che avevano montato in piazza, perché sono scese proprio due lacrime grandi, e allora ho capito che forse qualcosa l’avevo sbagliata. Zi’ Salvatore mi ha fatto segno di abbassarmi. Allora ho messo l’orecchio proprio davanti alla sua bocca. “Fai bene a scherzare con la morte,” ha detto con la sua voce di velluto. “È l’unica cosa su cui c’è veramente da ridere.” Per la verità, a me non sembrava di aver fatto niente di tanto notevole, volevo solo dirgli una poesia e fare bella figura. Del resto sono stato morto per sempre prima di nascere e stavo benissimo, perché non mi ricordo niente, e quando non ti ricordi è sempre perché stavi bene. Ma a quel punto era tutto un imbarazzo, non sapevo più che dire. Così, appena zi’ Salvatore si è girato di nuovo per controllare che Josh fosse ancora al suo fianco, me ne sono andato.
22.
La sera del concerto Josh non lo sapeva che lo doveva fare. Però noi avevamo studiato tutto. Sul palco era arrivato, da Matera insieme al pianista, un pianoforte nero a mezza coda che luccicava come quelli che si vedono in televisione. Il sindaco ed Egidio – il giornalista dell’“Ariglianese” che dal palco conduceva le serate – erano gli unici a cui noi ragazzi avevamo detto che lo straniero avrebbe fatto un concerto. Lo sapevamo solo noi. Neanche a Nononna avevamo raccontato niente, se no quella si preoccupava e pensava chissà che. Stavamo tutti sotto il palco, e aspettavamo il momento giusto. Refè e Mariolino invece erano rimasti seduti sotto la tenda del bar di Peppino e da lì assaporavano l’attesa: era meglio che stavano lontani da Josh, le risse alla festa dell’Unità sono vietate. Già dal pomeriggio eravamo andati dallo straniero, e per la prima volta l’avevamo trattato come se fossimo amici. Lui ci aveva guardato con diffidenza, aveva paura che volevamo ammazzarlo. Poi però si è tranquillizzato. Domenico gli dava le pacche sulle spalle e Josh si lamentava per le botte che aveva preso da Refè. Pasquina e le gemelle gli parlavano come se si conoscevano da sempre. Enzuccio era rimasto con zi’ Salvatore per non lasciarlo solo. C’era una canzone che era tradizione che i giovani del paese cantassero tutti insieme, sul palco, era una specie di inno di Arigliana, e diceva “quelli di Galviano sono cafòn, ma noi no no no... Quelli di Rutulano sono zozzòn, ma noi no no no... Quelli di Francuso sono ciutòn, ma noi no no no...”. Era un po’ tutta così, non era molto gentile con i forestieri dei paesi vicini, e ci faceva morire dal ridere. Finalmente, dopo mille altre esibizioni, Egidio il giornalista ci ha chiamati sul palco per cantare la canzone. Era il momento che aspettavamo. Con quella scusa abbiamo fatto salire Josh insieme a noi. Lui ha cercato di
resistere, ma Nina e Pasquina l’hanno preso per le braccia, e si è lasciato trascinare. Da sotto tutti già ridevano, perché conoscevano il testo. La base è partita. Lo straniero non ha aperto bocca perché non sapeva le parole, e anzi a malapena sapeva l’italiano. Però, quando è passato vicino al pianoforte, Nina mi ha dato un colpo. Non aveva scollato gli occhi dai tasti. Alla fine della canzone Egidio ha battuto le mani, ma tanto sotto era già un tripudio, neanche ci fosse stato Pavarotti. Allora siamo scesi, e abbiamo fatto in modo che per ultimi sul palco rimanessero Nina, Pasquina e lo straniero. Egidio sapeva che quello era il momento dell’esibizione al pianoforte, così l’ha annunciato al microfono, come se fosse la cosa più normale del mondo. “E adesso un momento particolare,” ha detto. “Nella scia della tradizione di accoglienza della città di Arigliana, invitiamo a esibirsi il più giovane tra gli stranieri, Josh. Incoraggiamolo con un bell’applauso, forza!” Ho guardato Refè, sotto la tenda del bar. Sulle labbra aveva un sorriso beffardo. Da sotto, la gente ha cominciato a fischiare e a urlare. Tutti facevano “buuu, via!”, “non ti vogliamo!”, “andatevene!”. I Rapatorti si sono messi a gridare come pazzi, poi pure i Capazzapponi. “Non ce ne frega niente degli stranieri, questa è la festa nostra!” ha urlato la Rapatorta dal centro della piazza. Poi il Capazzappone ha cominciato a sgolarsi pure lui. “Cacciateli, questa è roba nostra! Andassero a fare festa a casa loro, se ce l’hanno!” Quando gridava gli venivano le vene grosse sulla fronte, si gonfiava come un pallone. Allora tutti gli sono andati dietro, non ce n’era uno che non urlava, forse solo zi’ Salvatore. Però Egidio aveva il microfono, e quando uno ha la voce più forte comanda. “State zitti, ci vuole rispetto!” ha gridato, ma poi si è dovuto fermare pure lui. Quel pazzo di Josh ha fatto tutto da solo. Attratto come una calamita, si era seduto allo sgabello del grande pianoforte nero, e fissava i tasti lucidissimi, con lo sguardo di un indemoniato. Mentre in più punti della piazza la gente iniziava a menarsi, lui in silenzio ha regolato l’altezza dello sgabello. Ha chiuso gli occhi. E ha toccato un tasto.
Tutti si sono bloccati e hanno guardato l’ora, perché sembrava la campana della piazza dell’Orologio. Poi è successo come quando giochi a un due tre stella. C’è stato un momento in cui tutti abbiamo chiuso gli occhi, e il ragazzo è partito. Ha toccato un altro tasto. Quando li abbiamo riaperti, li ha chiusi lui. Faceva come davanti al sugo di nonna, teneva la testa bassa e sembrava che avesse una fame incredibile. Poi ha schiacciato un altro tasto, e di nuovo pareva una campana che risuonava dentro il cielo. Dopo ne ha schiacciato un altro, poi un altro ancora. Tòn-tàn-tòn-tàn-tòn. Infine ha cominciato a suonare per davvero, e io non so quanto tempo è durato. Quello che so è che è arrivato prima un fiume, che dalla via Appia è risalito fino alla piazza e ci ha raggiunti, poi il fiume si è portato dietro il mare, pieno di onde altissime, alla fine il mare si è trasformato nell’oceano. E allora io ho lasciato tutti e sono salito sulla mia nave. Sono passato a prendere mamma alla sua casa nuova e siamo andati a fare un giro come due innamorati la prima volta che si rivedono, i cuori battevano talmente forte che facevano rimbombare lo scafo. Da sopra, Arigliana era ancora più bella, le terre che la circondavano sembravano un lenzuolo di lino. Tutti erano fermi e non c’era la malvagità, pure i Rapatorti parevano agnellini. Mamma non credeva ai suoi occhi, era felice come Nina quando vede i gattini. Non smetteva un attimo di saltare e di parlare, continuava a dire che era una vita che voleva tornare alla festa dell’Unità come quando era piccola, ma c’erano sempre un sacco di cose da sistemare. Stavo per chiederle dove aveva nascosto l’altra metà del moncherino di foto dove c’era la risposta alla mia domanda, ma poi quel pazzo dell’orfano orfano ha suonato l’ultima nota e mi sono ritrovato nella piazza di Arigliana, seduto per terra contro il muro del Comune, da solo. Di fianco a me c’era Canetto che mi mordeva un braccio e mi faceva male. Catina, l’amica di Nononna, era piegata su di me dall’altro lato e mi teneva stretto. Che vuole questa, che è sta confidenza, ho pensato. “Piccolo, tieni qua, asciugati le lacrime,” ha detto. Ma quali lacrime, quella aveva le visioni. Mi passava il fazzoletto sulla faccia e mi stringeva, e diceva “buono, buono... Stai buono, Pietro... Basta con questi brutti singhiozzi, vieni qui. Mannaggia...”. Allora mi sono alzato, perché volevo andare via, alle volte mi trovo seduto in
terra e non so neanche come ci finisco. Però la piazza era stracolma di gente e nessuno si muoveva. Quello che avevamo sentito era troppo bello e strano. “Bello,” ho detto. Catina ha fatto sì con la testa. Quando c’è qualcosa di bello, chi lo sa da dove è venuto, così tutti preferiscono stare zitti per non rovinare niente. Allora sono corso via, e l’ho lasciata lì come una scema con il suo fazzoletto in mano. Comunque quello che si può dire per dare un’idea è che Josh ha suonato una specie di musica che arrivava dal cielo come un temporale improvviso, metteva terrore ma anche calma. Non si muoveva nessuno; neanche i pipistrelli volavano più, le campane della chiesa si erano immobilizzate, pure l’acqua della fontana si era fermata a metà strada. Ho guardato in giro e ho visto la scena più impensabile del mondo: la Rapatorta, nella sua veste rossa strappata, aveva le lacrime che scendevano. Ma due lacrime grandi così, ed erano l’unica cosa che si muoveva in quella piazza. Poi ho cercato Refè, e lui e Mariolino erano ancora seduti a terra sotto il tendone del bar con la testa tra le mani. Ho guardato bene, e mi è sembrato che pure Refè avesse gli occhi lucidi, ma non ci posso giurare. A quel punto Josh dev’essersi rotto, perché ha strisciato il seggiolino all’indietro, stridendo sul legno del palco, e si è alzato. Allora tutti hanno ricominciato a vivere, chi stava mangiando un panino con la salsiccia ha ripreso a masticare, chi stava bevendo una birra ha bevuto un sorso, chi si stava menando però ha smesso. Ho guardato in cima alla salita. Pure gli stranieri della famiglia di Josh avevano sentito. Le luci della piazza brillavano dodici volte dentro i loro dodici occhi.
23.
La festa è finita, la piazza è tornata vuota come era sempre stata – le cose belle che sembrano eterne finisce che se ne vanno. Dopo qualche giorno è successo un fatto che mai mi sarei aspettato, perché Linetta si considerava troppo povera per noi e non aveva il coraggio di venire a parlarci. Era molto timida. Infatti di lavoro, la sera, dava il mangime agli animali e puliva le stalle di suo padre, e si sbagliava quando parlava l’italiano. Però la sua bellezza era talmente tanta che niente la poteva rovinare. Suo padre infatti era uno dei pochi, come Pesciolino, che aveva rimesso a nuovo il pezzetto di terra della famiglia oltre il torrente, dopo il veleno di quel bastardo di zi’ Rocco, e ci pascolava qualche vacca e qualche capretta, e coltivava il frumento. All’improvviso, Linetta è spuntata dal niente ed è corsa verso di me come se fossi qualcuno di importante. Mi ha messo le braccia attorno al collo. Noi stavamo in piazza a fare niente, a giocare alla morra e a parlare di Josh e della musica che ci piaceva ascoltare. Linetta profumava di fresco, si vede che si era appena lavata perché tutto in lei odorava come il vento quando porta la primavera. Non l’avevo mai vista così da vicino, e ho dovuto fare forza sulle gambe per non cascare, perché gli occhi diventavano ancora più verdi, c’era da rimanere incantati. Quegli occhi luccicavano. Io ho subito creduto che era una dichiarazione d’amore, anche se era un po’ strana, lì davanti a tutti, però sempre di amore si doveva trattare. Allora, siccome c’erano anche gli altri, sono stato zitto, perché – come dice zi’ Salvatore – “cosa sono le parole se non sono accompagnate da un gesto d’amore?”. Solo che io di gesti d’amore da fare non ne avevo. Anche con Michela mi capitava, le volte che si fingeva innamorata di me, dopo che mamma aveva cambiato casa e tutto il resto (Michela si autoinvitava e voleva sempre stare con me, fare i compiti insieme, mettermi a posto la camera, ma poi ho scoperto che era sua madre che glielo comandava), e io facevo finta che non mi importava. Tutto volevo, tranne che prendermi altre fregature con le donne, da quando mamma se n’era andata. Però Linetta mi ha messo quegli occhi verdi attorno al collo e la bocca
vicinissima all’orecchio, e mi ha sussurrato se potevo dire a Nononna che lei e la sua famiglia avevano bisogno d’aiuto. Lo sapevo. Me la sono subito staccata di dosso: è proprio vero che quando le donne sono dolci è sempre perché cercano altro. Così, davanti agli altri, le ho detto che ci dovevo pensare. Quando siamo tornati a casa ho capito che avevo sbagliato tutto, perché quel giorno in paese erano arrivati dei funzionari che parlavano a nome della Comunità europea. Era per quello che Linetta mi aveva chiesto aiuto, e io l’avevo preso per amore. Insomma, questi funzionari arrivavano e facevano il giro delle famiglie a cui era rimasto un pezzetto di terra, e gli dicevano che dovevano produrre metà della frutta che avevano sempre prodotto, metà della verdura, metà uva, metà frumento, metà tutto. Perché da quel giorno in poi era la Comunità europea che regolava la produzione in tutti gli Stati. Ad Arigliana non si parlava d’altro che della visita di questi funzionari con la giacca e la cravatta e la macchina blu che avevano parcheggiato in piazza. Dallo slargo di fronte al lammione di Refè sono arrivate delle voci. Subito io e Nina siamo andati a sentire, protetti dalle persiane socchiuse della camera dei Nononni. Era Franco che litigava con Pesciolino. “Sono stati quei portamalocchio degli stranieri,” diceva Franco. “Per cent’anni non succede niente, e mo’ tutto d’un colpo ne succede una dietro l’altra.” “Ma quale malocchio, sono le leggi, sono le maledette leggi,” ha sbraitato Pesciolino, che aveva vent’anni ma sapeva bene cosa voleva dire spezzarsi le ossa sulla terra. Era incazzato nero. “Questi arrivano e ci dicono che dobbiamo buttare via metà di quello che produciamo da una vita. Che da un giorno all’altro metà di quello che abbiamo non vale più niente, è buono per i porci. Così ha detto, sto farabutto in giacca e cravatta: ‘Regalatelo’. Cristo santo, la prima gente bisognosa sono io, è la mia famiglia. È colpa delle leggi del cazzo. Quelli che fanno entrare questi stranieri, invece di ricacciarli a calci da dove arrivano, sono gli stessi che poi ci dicono che dobbiamo buttare via metà delle nostre terre... Fanculo gli stranieri, fanculo loro e le loro leggi. Io sulla mia terra ci faccio quello che ci hanno sempre fatto mio padre e mio nonno. Punto e basta. E se non gli sta bene, venissero a spararmi. Ma sparo prima io a loro.” Poi dal lammione di Franco e Refè è uscito pure il padre di Linetta. “Noi abbiamo fatto sempre e solo questo, questa terra è nostra. Se la sono comprata i
nostri padri e i padri dei nostri padri. È tutto quello che abbiamo. Metà raccolto non copre neanche le spese...” ha detto, ed era abbattuto. Franco gli ha dato ragione. “Se ci togli la terra, ad Arigliana non siamo più niente,” ha detto Pesciolino. “Questi bastardi ci portano via il lavoro e poi ci fanno venire gli stranieri. Così ci facciamo la guerra tra di noi, at’ capit’? Noi e sti pezzenti degli stranieri. Pezzent’ contro pezzent’. L’avessm’ accid’ a sti bastard’, altrimenti questi ci ammazzano loro a noi.” Poi io e Nina abbiamo sentito un rumore, ci siamo girati e alle nostre spalle, in camera da letto, c’era Nononno, che come noi stava spiando dalle fessure delle persiane. Non ci eravamo accorti, ma aveva ascoltato anche lui. Era quasi l’ora della sua pennichella. Scrollava la testa. “La cosa peggiore,” ha detto a bassa voce, quasi parlando tra sé, “è che questo riguarda tutti tranne zi’ Rocco.” Si è appoggiato al cassettone con sopra le fotografie primitive del giorno del matrimonio dei genitori suoi e di quelli di Nononna. “Più prodotti gli altri devono buttare, meglio è per lui. Lui non li vende così come sono. E magari si compra pure quello che gli altri buttano, per due spiccioli. Quel bastardo ci fa i barattoli coi conservanti... Be’, mo’ fuori voi due, che mi devo coricare.” Nina è uscita. Là sotto, nello slargo del lammione, Franco e gli altri continuavano a discutere e a fare baccano, e Nononno stava perdendo la pazienza. Allora ha aperto le persiane ed è uscito sul balcone: quando l’hanno visto, tutti l’hanno salutato e sono tornati dentro. Nononno il Possident’ in paese godeva ancora di molto rispetto. Ha fatto un cenno, poi è andato a sedersi sul letto per togliersi le scarpe. Proprio mentre gli adulti rientravano, Refè usciva. Con i suoi passi corti è andato a sedersi sul gradino della porta della casa di zi’ Immacolata, proprio di fronte al nostro balcone. Allora sono uscito anch’io. È stato un momento veloce: ci siamo guardati. Poi lui ha distolto lo sguardo in fretta, e si è messo a giocare con una biglia. Ma in quell’occhiata ho capito che c’era la possibilità che ritornavamo amici: anche se lo straniero non era un pazzo da rinchiudere, l’avevo pur sempre messo tra le sue mani.
In quei giorni, ad Arigliana, camminando per i vicoli, da ogni casa si sentivano grida e rumori di piatti rotti. Le donne del paese facevano quello che avevano imparato dalle loro nonne, quando le cose della terra andavano male e c’era un lungo inverno da affrontare: ascoltavano gli uomini. Perché sapevano che da uomini feriti poteva esplodere la rabbia. Li lasciavano parlare. E gridare. Rompere le cose. E pazientavano. Sapevano che a una cattiva annata ne può seguire un’altra cattiva. Forse due. Allora bisognava trovare il modo di campare per due o tre anni con ciò che si aveva. Stringere i denti e arrangiarsi. Ma, al più tardi, la quarta annata sarebbe stata buona. Poi, all’improvviso, una notte è successa una cosa che nessuno si sarebbe aspettato: dalle campagne, col buio, salivano in paese delle squadre che cantavano inni violenti. Con loro, dalle terre, portavano bastoni, pale e forconi. Erano vestiti di nero, le facce coperte. Marciavano come un piccolo plotone per le strade buie di pietra, battevano il ritmo con gli scarponi da campagna, con le mazze picchiavano contro i muri, le ringhiere, i tubi di scolo della pioggia, i gradini delle case. Io e Nina ci svegliavamo e non riuscivamo più a riaddormentarci. Rimanevo con gli occhi aperti a fissare il soffitto: in una mano stringevo la mano di Nina, nell’altra il sacchettino con il moncherino di foto. Cantavano inni e giravano per le vie. In paese, di giorno, si diceva che in testa a quei cortei c’erano i figli dei Capazzapponi e i Rapatorti. E che erano tanti i braccianti che la sera uscivano dalle case e, anziché coricarsi, marciavano con loro.
24.
Io e Nina tenevamo d’occhio Josh dalla nostra torre di vedetta, e sembrava al sicuro, perché era ancora un ragazzino. Come sempre, era rimasto tutta la mattina sdraiato sul letto a leggere. Mi è venuto di andare a vedere che libro era, non poteva certo essere Centomila gavette di ghiaccio. Una volta che l’abbiamo visto uscire sono sgattaiolato da zi’ Salvatore. Fissava il muro con il bastone appoggiato sopra le ginocchia, non si è neanche accorto di me. Stava peggiorando, quel vecchio. Sono salito al primo piano e mi sono infilato dentro la stanza dell’orfano musicista. La camera era tutta di pietra, sul pavimento e sulle pareti. Oltre a quella brandina sfondata, e al pianoforte, non c’era niente. Sul materasso c’era il libro aperto all’ingiù. Mi sono avvicinato: The Migration of the Palm. Quindi non solo leggeva, ma leggeva pure in inglese: quello era davvero suonato. Sotto il letto c’era il quadernone rosso che teneva in mano la mattina che erano usciti dalla torre. Volevo avvicinarmi per vedere cosa c’era scritto, solo che mi sono distratto. Quella era la voce di Filomena, la madre di Refè. Si era messa a strillare per la via. Gridava gridava gridava, talmente forte che non si poteva fare finta di niente. Tutti si sono affacciati alle finestre. Mi sono affacciato anch’io. Di fronte c’era Nina, se allungavamo le braccia ci potevamo dare la mano. Filomena stava impalata di fronte al cancello del palazzo della Menzasignor e piangeva, piangeva, e più piangeva più gridava, proprio come le vecchie a pagamento ai funerali. Pure Nononna era corsa, ma Filomena era troppo scioccata. Anche Pasquina si è avvicinata, ma niente. E pure Catina. Allora sono sceso anch’io, e Nina è venuta con me. Zi’ Salvatore invece non si è accorto di niente, quello non mi piaceva proprio, peggiorava a vista d’occhio. Filomena non parlava, però col dito ha indicato oltre il cancello della Menzasignor. Allora abbiamo visto, le bambine hanno messo le mani davanti alla bocca, e
tutti ci siamo fatti la stessa domanda: come diavolo c’era finito là dentro? Donatino, il fratello piccolo di Refè, che aveva sì e no tre anni, era al di là del cancello chiuso della Menzasignor e giocava da solo. Scavalcare era impossibile, troppo alto. Doveva essere stata la magia nera. Pareva ci avessero fatto un incantesimo pure a noi, infatti nessuno muoveva un muscolo. Soltanto Josh lo straniero era scampato al sortilegio, e tornava dal forno con il sacchetto del pane. Nessuno ha fatto caso a lui, non come quando suonava in piazza. Tutti facevano ping-pong con gli occhi tra Donatino (che giocava come se niente fosse tra le piante selvatiche) e Filomena, Filomena disperata e Donatino tranquillo, e tutti si chiedevano “ma come ci è finito là dentro, che mai nessuno ci è entrato nella intera storia di Arigliana, da dopo che la Menzasignor se n’è andata?”. Mentre passava davanti al cancello, Josh si è fermato e ha guardato pure lui. Filomena è scoppiata di nuovo a piangere, zi’ Concetta – che viveva proprio lì di fronte e stava seduta nella sua poltrona davanti alla porta di casa – ha detto “cose da pazzi, cose da pazzi, in novant’anni non avevo mai visto una fascinatura accussì”. Josh non capiva, ma poi Nina gli ha fatto segno di guardare bene tra le foglie, dentro il cortile del palazzo. Allora l’ha visto pure lui, Donatino, che giocava beato. Poi si è voltato di nuovo verso Filomena, e quella piangeva ancora più forte e diceva “non me lo ridarà mai nessuno, la Menzasignor se lo terrà per sempre nella sua casa...”, e frignava come una minorenne. È stato in quel momento che Josh ha capito per davvero. Senza dire niente, ha appoggiato a terra il sacchetto col pane e si è attaccato al cancello. Le vecchie facevano “uuuh”, oppure “aaah”, o anche “oooh”, qualcuna faceva “o Madonn’, o Madonn’”. Zi’ Concetta si è coperta gli occhi e diceva “quello è matto, quello è tutto matto, quello è matto, quello è tutto matto”, e andava avanti così. Lo straniero, senza tante chiacchiere, è salito in cima al cancello. Si arrampicava come una scimmia. Ha guardato verso di noi. Poi, ancora più veloce di come era salito, è atterrato dall’altra parte. Dentro il giardino. Le vecchie allora hanno cominciato a dire il rosario tutte insieme ad alta voce, “nel primo mistero gaudioso si contempla l’Annunciazione... L’angelo Gabriele
fu mandato da Dio in una città della Galilea...”. Solo Nononna non diceva niente, perché lei a Dio ci credeva sì e no. Josh è arrivato alle spalle di Donatino e l’ha sollevato da terra. Donatino non era manco stupito, era troppo piccolo oppure era rincoglionito. Josh se l’è messo sulle spalle e si è riavvicinato alla ringhiera. Tenendolo con un braccio solo, si è arrampicato e ha scavalcato di nuovo. Quando le donne hanno visto Donatino sano e salvo fuori dal dominio della Menzasignor, nessuno ha avuto parole. In fondo alla via, in cima alla salita, in quel momento è spuntato Refè, trascinato da sua sorella Mariangela. Doveva essere andata a cercarlo in campagna. Refè aveva la faccia come per dire “embè, che è tutta sta gente?”, poi però si è accorto che qualcosa era successo davvero, perché c’era l’aria di una cosa che sta per cominciare. Josh ha raccolto da terra il sacchetto del pane, è passato di fianco a me e Nina, ha tagliato il muro di donne e bambini, e come se niente fosse ha proseguito verso casa di zi’ Salvatore. Refè, che scemo non è, ha guardato il fratellino in braccio a sua madre, che aveva ancora la faccia bagnata di lacrime, e in un attimo ha capito. Lo sguardo gli si è acceso. E pure io, vedendo gli occhi di Refè, ho capito tutto. Ero stato fregato. Quei due erano destinati a diventare inseparabili, ci potevo scommettere qualunque cosa. Un lupo sa come trasformare la rabbia in fedeltà, e un animale ferito ha bisogno di un lupo come protettore. Filomena faceva saltare Donatino, e il bambino rideva come un matto perché non era abituato a essere coccolato dalla madre, e non gli sembrava vero. Qualcuno ha chiesto ancora “ma come ha fatto a finire là dentro?”. Zi’ Concetta, sprofondata nella poltrona, ha risposto “si vede che era aperto, qualcuno deve averlo aperto”, ma era una risposta talmente assurda che è sembrata impossibile. Erano decenni che nessuno si azzardava a passare troppo vicino a quel palazzo o anche solo a pensare di aprirne il cancello. Comunque non era importante. Donatino si divertiva, sano e salvo in braccio a sua madre.
25.
Il più anziano degli stranieri si era messo in testa di fregare zi’ Rocco. Dopo essersi spezzati la schiena per settimane nelle sue terre per poco più di un pezzo di pane, una sera si è presentato in segreto a casa di Nononna chiedendo di parlare con nonno: erano stati ad Arigliana abbastanza da aver capito le antiche rivalità. Avevamo già cenato, il pendolo aveva rintoccato dieci volte. Nononno come sempre stava da solo in salotto al piano di sopra davanti alla tv, mentre io, Nina e Nononna eravamo in cucina a mangiare le Bomboniere: nonna ci raccontava le storie di Arigliana, di quando lei era appena nata. Di punto in bianco hanno bussato. Sono corso alla porta, Nononna era troppo lenta e avevo la curiosità, a quell’ora in paese dormivano quasi tutti. Ho aperto e mi sono ritrovato davanti il più anziano degli stranieri. Era alto, prima non me n’ero mai accorto. Ed era magro. Un po’ assomigliava a Josh, aveva una massa di capelli neri, e mi guardava allo stesso modo. Sembrava smarrito. Però era grande. In maniera educata continuava a piegare la testa davanti a me che ero solo un bambino, mi faceva venire l’imbarazzo, non sapevo come ricambiare. Si capiva che era un uomo gentile. Però si guardava anche attorno, doveva avere paura che qualcuno lo vedeva. Adesso era tutta un’altra cosa rispetto alla mattina in cui erano venuti fuori dalla torre: era pulito, portava una camicia azzurra con le maniche rimboccate, come uno che fa i lavori normali. “Posso parlare con vostro nonno,” ha chiesto ancora sulla porta, con la voce timida, anche se non era una domanda. Mi dava del voi. L’ho fatto entrare e ho chiuso il portone. Nina era nascosta dietro lo stipite della cucina e ci spiava. “Venite, venite,” ha detto Nononna, che ad alzarsi dalla poltrona ci ha messo una vita. “Venite dentro.” Nonna era bella perché era sempre buona con tutti, pure con don Eustachio, figuriamoci. Lo straniero si è seduto, e alla luce del neon si vedeva che era distrutto dalla fatica, aveva gli occhi arrossati e in faccia delle rughe profonde come i calanchi.
“Che vi offro?” ha chiesto nonna. Ad Arigliana non si potevano dire due parole nelle case degli altri senza qualcosa in bocca. Sul tavolo c’era il cartone aperto delle Bomboniere. “Giusto un bicchiere d’acqua.” “Ma quale bicchiere d’acqua! Un bicchiere di vino? Prendete una Bomboniera!” “L’acqua va bene, grazie.” Nononna ha fatto un cenno, e Nina è andata al frigo e ha preso un bicchiere dalla dispensa. Nonna nel frattempo ne ha approfittato, e pensando che nessuno la vedesse si è infilata in bocca un’altra Bomboniera. “Abbiamo una proposta di cui volevamo parlare con il signor Nunzio Possident’.” Nononna per poco non soffocava. Si erano integrati bene, conoscevano pure i soprannomi. Però sapeva che non tanto gli piacevano gli stranieri, a nonno. Ma sentire certe parole da un invasore bracciante era pure comico, io e Nina ci siamo guardati e abbiamo trattenuto una risata. Nonna ha fissato lo straniero, e quello è rimasto serio. Gli occhi erano fermi, ma sembravano buoni. “Adesso?” ha chiesto. Lui ha annuito. Nonna ha preso un’altra Bomboniera, e Nina ha detto “basta, nonna, ti fanno male”, perché il patto era che ne mangiava al massimo due a sera. Noi invece potevamo prenderne quante ne volevamo. Poi nonna ha schiacciato la scatola di cartone ormai vuota. “Vai a vedere sopra, se tuo nonno dorme.” Sono salito di corsa per le scale. La cosa proibita di avere uno straniero in casa mi metteva energia. Nononno stava con la sedia in mezzo alla stanza, a pochi passi dal televisore, col volume alto. Guardava un telefilm di poliziotti. “Nonno,” l’ho chiamato dalla porta. Ma lui non ha sentito. Allora sono entrato e l’ho ripetuto da dietro la sua schiena, e nonno ha fatto un salto. “Che vuoi?” è scattato, pensava fosse Nononna. Poi mi ha visto e si è addolcito. “C’è uno straniero che ti vuole parlare,” ho detto. Ha piegato la testa, voleva dire che dovevo ripetere. “Giù. C’è uno degli stranieri. Ti vuole dire una cosa.”
Nonna lo ha accompagnato su, e Nononno quando lo ha visto per poco non si alzava e andava a prendere la pistola dal primo cassetto del comò. Io e Nina ci siamo accucciati fuori dalla porta della sala. Nononna ha fatto sedere lo straniero sul divano – lui si muoveva come per non rompere niente, si è seduto appena in punta – poi ha preso una sedia e si è messa di fianco a nonno, per tenergli la mano sulla spalla: aveva paura che si alzava e lo prendeva dal collo. Lo straniero stava dritto e si torceva le mani. “Avanti,” ha detto Nononno. Una voce così forte gliel’avevo sentita solo quando parlava di Benito al Circolo sociale. Quello si è fatto coraggio, ma si vedeva che non sapeva da dove cominciare. Però è stato diretto. “...Sappiamo che alcuni ad Arigliana hanno ancora delle terre...” ha balbettato. La nostra lingua gli usciva bene. Nonno si è guardato in giro come per dire “ma che vuole questo?”. Però ha detto “embè?”. Ma nonna gli ha dato un pizzico sulla spalla. “...pure voi,” ha aggiunto lo straniero tutto d’un fiato. Gli occhi si muovevano dappertutto nella sala, tranne che in faccia a nonno. “Sono ancora quello che ha più terra ad Arigliana dopo quel bastardo di Rocco Impellittieri. Mio padre aveva il doppio della terra di suo padre!” è scoppiato nonno. Lo straniero ha infilato le mani in mezzo alle gambe, si vede che non sapeva dove metterle. Poi ha tirato un sospiro. “Il torrente,” ha detto. Nononno l’ha guardato come se fosse scimunito. “Ma che vuole da noi questo qua?” ha chiesto a Nononna, come se lì davanti ci fosse il divano vuoto. Lo straniero ha ripetuto “il torrente Olmo”. Nonno ha fatto finta di non sentirlo. Si è girato verso Nononna e ha detto di nuovo “che vuole questo cu st’ torrent’?”. L’uomo ha chiuso gli occhi. “Si possono mettere insieme tutte le terre che stanno al di là del torrente... Come un tempo...” Nononno non ha parlato. “Si possono dividere i costi di coltivazione...” lo straniero ha preso fiato, “...e rimettere in attività la vostra masseria.” L’ultima frase l’ha detta velocissima, come se gli fosse scappata dalla bocca. “E produrre conserve.” Nononno non ha fiatato. Nonna stava dritta come la spasa per la pasta. Sapeva che per nonno dire “conserve” era come un’offesa. Per lui la terra era soprattutto frumento. E olive.
Nononno si è voltato lentamente verso la testa di legno di Benito, è scattato in piedi come quando faceva il militare e il generale comandava “attenti!”. Poi si è messo a gridare forte, anzi fortissimo, in dialetto, non l’avevamo mai sentito urlare così forte, forse neppure nonna. Imprecava, diceva cose che non posso proprio ripetere, sui santi e sulla Madonna. Nonna si è portata dietro di lui e l’ha stretto con le braccia intorno al petto, era sicura che gli sarebbe venuto un colpo. Nonno gridava in dialetto e quello straniero non capiva niente, però quando ha urlato “fuori da questa casa! Adessooo!”, io non ho mai visto nessuno precipitarsi così in fretta giù dalle scale e aprire il portone e sparire. C’è mancato poco che non ci ammazzasse, dato che io e Nina stavamo nascosti dietro la porta. Poi tutto è finito. Nonno era rimasto seduto con i gomiti appoggiati al grande tavolo della sala e la testa tra le mani, non si dava pace. Nonna ha dovuto aprire la bottega e gli ha preparato un infuso con le erbe di valeriana, melissa e tiglio. “E che sarà mai,” volevo dire per sdrammatizzare, però Nina che mi capisce prima ancora di me stesso mi ha dato un colpo. “Shhh,” ha detto sottovoce, mentre lo guardava con gli occhi preoccupati dal divano, dove fino a poco prima era stato seduto quello là. “Lascialo in pace.” Poi siamo andati tutti a letto. Però perfino noi, che siamo ancora bambini, invece di dormire quella notte ci pensavamo e ne parlavamo, e voleva dire che quella dello straniero era una bella idea. L’antica masseria poteva tornare a splendere, avrebbero finalmente potuto fregare zi’ Rocco. Le terre c’erano, e un tempo erano stati campi di frumento e cereali, viti a perdita d’occhio, uliveti rigogliosi, campi di noci e di arachidi. Si poteva rimettere in funzione, ripiantare tutto e ricominciare. E lo straniero aveva ragione: se i funzionari vietavano di vendere direttamente i prodotti della terra, allora bisognava trasformarli in conserve. Dopo che io e Nina abbiamo finito di parlare e ci siamo dati la buonanotte, prima di addormentarmi ho stretto il sacchettino che portavo al collo e ho chiesto a mamma. Anche secondo lei era una grande idea. La mattina dopo Nononno era nervosissimo: senza nemmeno fare colazione, si è trovato qualcosa da buttare ed è andato alla garamm’. Nononna non ha detto niente, ma era ovvio che c’era qualcosa che non andava.
Infatti mi ha chiesto di seguire nonno, magari aveva paura che in una di quelle gite si buttava giù pure lui. Di pomeriggio infatti ci è tornato, e pure la mattina dopo. Ci andava anche due volte al giorno, addirittura saltava il Circolo, doveva essere proprio una cosa seria. Io lo seguivo come un agente segreto, e non mi ha scoperto nemmeno una volta, e non solo perché era un vecchio decrepito: sono sicuro che anche quando era ufficiale dell’esercito gliel’avrei fatta sotto il naso. Si trovava qualcosa da buttare, qualunque cosa, ogni scusa era buona, arrivava là sopra col fiatone, si guardava attorno e lanciava giù un sacchetto mezzo vuoto. Poi si fermava mezz’ora ad ammirare la valle. Io non sapevo che fare, mi annoiavo a morte, però bastava guardare in basso e si apriva la meraviglia in ogni direzione: rettangoli di terra dai mille colori, e poi i calanchi. È stato solo dopo che ho fatto attenzione a tutta quella meraviglia che finalmente ho capito perché Nononno aveva quella passione per buttare via le cose. In quello che lasciava andare alla garamm’ c’era la nostalgia per ciò che poteva essere e non era stato. Bastava guardare verso le sue terre per capirlo. Allora il terzo giorno sono tornato da Nononna con il verdetto: “Nono’, nonno è ammalato di nostalgia”. Nononna però già lo sapeva, perché ha annuito. “È ammalato di rabbia. Quanto ben di Dio sprecato,” ha detto, mentre mi prendeva in braccio, sulla poltrona. A me tutti sti grandi che mi prendono in braccio non mi sono mai piaciuti, appena cresco gliela faccio vedere. “Un giorno o l’altro a tuo nonno si spezzerà il cuore, a furia di andare alla garamm’”, e mentre parlava nonna guardava nel vuoto. “È perché zi’ Rocco gli ha avvelenato le campagne?” ho chiesto. Nononna ha fatto gli occhi che significavano “e tu che ne sai”, ma non ha detto niente. Forse aveva capito pure che nonno mi aveva raccontato tutto. Quando uno si ammala di nostalgia è brutto, gli viene la febbre e non ci sono medicine. Infatti in quei giorni Nononna era molto preoccupata, anche se cercava di non farsene accorgere, io e Nina l’avevamo capito. Aveva persino cominciato a cuocere la pasta come si deve, quando nonno la mangiava non diceva più che era ancora alla bottega. Io, dato che alla garamm’ ci dovevo già andare, e siccome la nostalgia di nonno era contagiosa, quando ero là sopra, visto che c’ero, davo un’occhiata
dappertutto. Non si sa mai che mamma ne aveva approfittato per farmi trovare, in mezzo a quella spazzatura, pure l’altra metà del moncherino. E, insieme a quelle cose che non servivano più a niente, magari anche la risposta alla domanda di quella mattina.
26.
Per la prima volta ci siamo ritrovati nella torre dopo cena, anziché di pomeriggio. C’eravamo tutti: Domenico ed Enzuccio, Pasquina e le gemelle, Refè e Mariolino, io e Nina. Josh era insieme a noi, e a vederlo camminare al nostro fianco per la stradina che scende alla piazza sembrava uno normale, anche se era tutto storto, come sempre. Sembrava come noi. Era stato Refè a decidere quella gita notturna, e che poteva venire anche lo straniero. Eravamo andati insieme a chiamarlo, a casa di zi’ Salvatore, lui era rimasto impalato e non si voleva muovere: credeva che fosse un’altra trappola, che Refè gli volesse sparare di nuovo. Zi’ Salvatore però aveva detto “vai, vai, figliolo, che non ti fanno più niente”, e Josh si era fidato, perché anche lui sapeva che zi’ Salvatore, per via della vecchiaia, conosceva ogni cosa. Anch’io però lo avevo capito, dopo che Josh era entrato nel giardino della Menzasignor e dopo che Refè lo aveva sentito suonare, che quel lupo di Refè mi aveva perdonato, e che forse, forse, potevamo diventare tutti amici. Tutti e tre. Fuori era notte, le tenebre allungavano le braccia dentro le finestre senza vetri della torre. Un po’ avevamo paura, almeno parlo per me e per Nina. Josh di sicuro non ne aveva, lì dentro ci aveva vissuto per tre mesi. Siamo saliti al primo piano, facendo luce con gli accendini e con le torce. Ci siamo seduti in cerchio per terra, nella polvere. Refè ha acceso un fuoco per mandare via la paura. Mentre salivamo, mano nella mano con Nina, mi è tornata in mente la frase che una volta mi aveva detto mamma: la paura è una bugia. Infatti c’era una storia vera da raccontare, lo sapevamo noi e l’aveva capito pure Josh. Era per quello che eravamo lì, lo sapevamo tutti, anche se non l’avevamo detto. Allora Josh ha cominciato a raccontare la sua storia. Le parole gli uscivano liberate, come il pappagallo che diceva “Pietro”: quando aprivi la gabbia ci pensava un attimo, ma poi volava via. Era una storia
fatta di viaggi, per terra e per mare. Era fatta di cammino, senza acqua e senza cibo, senza bagagli; di abbandono della casa e degli amici; della perdita della madre e del padre; della vita con la nonna, di quando l’avevano affidato agli zii visti per la prima volta il giorno in cui erano andati a prenderlo, per partire. Era una storia di fame. Di pezzi di pane e sorsi d’acqua. Stavamo in silenzio attorno al fuoco, le fiamme illuminavano le facce di Domenico e di Enzuccio, di Refè e di Mariolino, di Pasquina e delle gemelle. Guardavamo in basso, la terra rossiccia della torre. Solo lo straniero guardava dentro il fuoco, e parlava: e mentre parlava sconfiggeva la paura. Non solo quella del buio fuori, ma la paura grande. Se Josh era vivo, allora anche noi eravamo vivi. Insieme, di notte, attorno al fuoco. Josh infatti non aveva paura della Menzasignor perché ormai non poteva avere più paura di niente. Quando Josh ha finito il suo racconto, ho guardato Refè. Gli occhi gli brillavano. Allora ne sono stato sicuro: Josh e Refè erano diventati amici. Perfino Domenico non aveva battute da fare. Nina, che aveva più coraggio che anni, è stata la prima a parlare. “Che musica hai suonato quella sera, Josh?” ha chiesto. Lo straniero ci ha pensato, dopo ha detto “aspetta un attimo”. Si è alzato e ha preso un accendino da terra, poi è sceso. L’abbiamo sentito uscire dalla torre, sprofondare dentro il buio. Siamo rimasti lì come degli scemi, ma nessuno ha parlato. Guardavamo il fuoco. Poi Josh è tornato. In mano teneva il quadernone con la copertina rossa. Quello che avevo visto nella sua camera. L’ha aperto, e al posto delle parole c’erano note musicali: tante piccole stelle comete che danzavano sui fogli. “Questa è la musica che ho suonato,” ha detto. “Ma hai suonato senza quaderno,” ha detto Pasquina. “Quando vivevamo qui dentro, tutti i giorni leggevo questo quaderno e mi suonavo la musica nella testa. Da zi’ Salvatore c’è un piano, lì provavo.” “Dove l’hai preso?” ha chiesto Nina, indicando il quadernone. “Mia mamma era maestra di musica.” “Era una musica bella,” ha detto Refè. Tutti l’abbiamo guardato. Gli aveva pur sempre sparato. “Ridevo e non sapevo perché.” Era pure diventato sentimentale. “Era l’unica musica che avevo,” ha detto Josh. Siamo stati a guardare il fuoco per un bel po’, non c’era più bisogno di parlare.
Poi ho rotto il silenzio, ero troppo curioso. “Da quando sei arrivato leggi sempre un libro...” Josh non ha chiesto come lo sapevo, magari ci aveva fregato per tutto il tempo. Ha fatto sì con la testa. “È la storia della migrazione della palma,” ha detto. Valeria la gemella l’ha guardato un po’ timida. “Che storia è?” “È la storia della noce di cocco che per prima ha preso il mare, e piano piano dall’Australia è arrivata in America. Si chiama Martin, ed è la più coraggiosa di tutte le noci di cocco. È grazie a Martin se oggi l’America è piena di palme.” Josh si è fermato. “Io voglio essere come Martin. È diventata un albero su una spiaggia lontana.”
27.
Io l’ho capito quando Nononno è guarito, perché di punto in bianco è diventato allegro, non l’avevo mai visto così in tutti gli anni che lo conoscevo e che me l’ero tenuto come nonno, nonostante quel carattere ciutone che si ritrovava. All’improvviso, una mattina si è svegliato pieno di energia, sembrava addirittura più giovane di Nononna, c’è da restare meravigliati dalla forza che ha la vita. Potevo persino canticchiare, fischiare e battere mille ritmi diversi dentro casa, lui non diceva niente. Ho provato pure mentre mangiavamo: come se niente fosse. Ho avuto paura che stava per succedere qualcosa. Però nonno non aveva più la febbre, ed era pieno di voglia di parlare. Nononna diceva “seee, avreste dovuto vederlo quando era giovane e mi faceva la corte”, ma a noi quelle storie facevano senso. Allora tirava fuori le foto di quando le aveva chiesto di sposarlo, ma pure dalle foto si vedeva che erano vecchi, i vestiti erano della preistoria, però io e Nina non dicevamo niente per non farla dispiacere. Nononno aveva così tanta energia che un sacco di persone che non avevo mai visto (meridionali veri e propri che abitavano in campagna, tipo Refè e la sua famiglia, ma alcuni ancora di più) venivano a casa a parlare con lui. Si chiudevano in sala per ore. Però noi, con la scusa di portare i taralli, i biscotti o il Crodino, avevamo il permesso di salire. Peppino spesso lasciava il bar e passava ore e ore con nonno. Nina gli aveva sentito dire “sarei felicissimo di aiutare a rimettere in funzione la vera Masseria Lucania, zi’ Nunzio. Quella ha campato metà delle famiglie di Arigliana...”. “Fino all’arrivo del veleno,” lo aveva interrotto Nononno. Peppino lo aveva guardato con un bel sorriso. “Sarebbe un onore contribuire a riportare in vita le terre e la vostra masseria.” A casa veniva tantissima gente. Nononno non usciva più perché riceveva tutte queste visite, e più incontrava queste persone sporche di terra con gli scarponi incrostati di fango, più era felice.
Parlava solo di campi e di coltivazioni, di quali nuove sementi e nuovi tuberi usare, dove comprarli, di arature e di metodologie, di concimi e di fertilizzanti, di cereali e di maggese, di semi e di innesti. Stavano chiusi nella sala e facevano sogni a occhi aperti. Tutti insieme. E allora, alla fine, Nononno ha dovuto ammettere che quella degli stranieri era una grande idea: poteva essere l’occasione che aveva aspettato per un tempo lungo come tutta la sua vita. Anche se si presentava in una forma diversa da come l’aveva immaginata nelle infinite notti in cui non dormiva: bisognava produrre e vendere conserve. Questo era il mondo nuovo, e anche un vecchio come Nononno non si poteva tirare indietro. Finché una bella sera lui e Nononna hanno invitato a cena Ninuccio, il sindaco nostro cugino. Già vederlo alla stessa tavola insieme con nonno era un evento. Mentre mangiavano arrosto di agnello, Nononno gli ha chiesto ufficialmente di procurargli un elenco di tutti quelli che ad Arigliana possedevano ancora terre dall’altra parte del torrente. Per l’occasione nonna è andata anche al magazzino a prendere la grappa buona: insieme, nonno e Ninuccio ne hanno fatta fuori mezza bottiglia. Poi Ninuccio, siccome era nostro cugino, dopo una settimana si è presentato a casa con un faldone speciale: dentro c’era l’elenco di tutti i proprietari di terreni al di là del torrente Olmo. Allora ogni giorno nonno spulciava l’elenco e invitava quelli che possedevano terre e che magari neanche si ricordavano più, dopo tutti gli anni che avevano lavorato da braccianti per zi’ Rocco. Sarebbe stato impossibile immaginare quanti ad Arigliana erano rimasti con un pezzetto di terra. La prima domanda che tutti gli facevano, di fronte a un bicchiere di vino rosso, era cosa c’era da perdere: ad Arigliana nessuno si fida di nessuno. “Da qualche parte dev’esserci la fregatura,” aveva detto Pesciolino, quando è stato il suo turno. Io e Nina ascoltavamo, dietro la porta. Lui, che non aveva mai smesso di lavorare la sua terra, adesso era strozzato dalla legge che lo obbligava a produrre la metà. Non ce l’avrebbe fatta. Nononno, a lui come agli altri, aveva risposto “perdere, abbiamo già perso tutto. Ognuno per i fatti suoi, non andiamo da nessuna parte. Se ci uniamo, possiamo fregarli: invece che vendere, ci mettiamo a produrre le conserve. Quello che produciamo lo trasformiamo”. Pesciolino l’aveva guardato
attentamente: sapeva come la pensava nonno sulle conserve, come tutti i vecchi che avevano sempre lavorato la terra. Ma nonno sorrideva beffardo, così lui si è calmato. “Sarebbe pure fregare zi’ Rocco,” aveva detto Pesciolino. “Ci riprendiamo solo quello che è nostro.” Gli occhi del ragazzo avevano brillato. Dovevano raggruppare i risparmi e fondare una cooperativa. Comprare pochi animali: vacche, maiali e pecore. Poi piantare e ricominciare a coltivare pomodori, susine, cipolle, lampascioni, fichi, olive, peperoni, melanzane, zucchine, cachi, noci, e uva da vino. Poi ancora, rimettere in funzione la masseria, e iniziare a confezionare conserve, salame e formaggi. Volevano iniziare anche una coltivazione di zafferano, perché a quello zi’ Rocco non ci aveva ancora pensato, e invece se c’era una cosa che era il futuro era lo zafferano. Era richiestissimo, e il clima di Arigliana era perfetto. Lo avrebbero venduto in tutta Italia, e poi nel mondo intero. Lo zafferano di Arigliana. Sognavano con gli occhi bene aperti, e in dialetto, perché i sogni si fanno in una lingua coraggiosa, se no non vengono. Ogni sera, alla fine della giornata, Nononno a tavola diceva “siamo un esercito”, poi si riempiva un grande bicchiere di vino rosso. E Nononna lo guardava con certi occhi, pareva quasi che lo amava. Così, piano piano, le persone in paese hanno iniziato a pensare che forse era possibile una vita senza sfruttamento. Bastava andare oltre il torrente, dove da decenni non erano più abituati a guardare. E in piazza, al bar, sulla via Appia, alla Villa, si parlava; e parlando si trasmetteva entusiasmo; e trasmettendo entusiasmo ci si infondeva coraggio. Uno con l’altro. Alla fine, quel vecchietto di Nononno il Possident’ è riuscito a mettere d’accordo gente che non avrebbe mai pensato di potersi mettere insieme. Egidio il giornalista e Nino il farmacista, che avevano i campi di grano; i padri di Domenico e Enzuccio, che avevano gli uliveti; il medico Vitti, che avrebbe messo il suo grande noceto, come anche il macellaio, il padre di Pasquina; Peppino, che avrebbe condiviso le sue vigne di Aglianico; e lo stesso avrebbe fatto il giudice Lopiano – la sua famiglia un tempo aveva prodotto vino di ottima qualità. Anche Franco, il padre di Refè, aveva acconsentito a lavorare per la cooperativa: non aveva terre, ma aveva braccia forti. E poi c’era la distesa di quelli che un tempo erano stati i campi di frumento di Nononno: trenta ettari. La
vita di suo padre e di suo nonno. La sua vita. Questi trenta, uniti alle campagne più piccole degli altri erano una quarantina di ettari. Era tanta terra. Dopo quattro stagioni, o forse addirittura tre, avrebbero iniziato a confezionare e a vendere. Se ce l’aveva fatta quel cane di zi’ Rocco, ce l’avrebbero fatta anche loro.
28.
Come erano iniziate, così le riunioni a casa dei Nononni sono finite: è stato il giorno in cui nonno ha preso il telefono e ha chiamato quel lavativo di suo genero, e queste erano parole sue. Nina era al settimo cielo, io pure, dopo più di un mese e mezzo avremmo rivisto papà. Quando ha messo giù il telefono, Nononno ha detto “quello scansafatiche di Biagio almeno adesso avrà un lavoro”. Però non era vero che papà era uno scansafatiche, il lavoro l’aveva perso, non era colpa sua. Nononna l’ha sentito e gli ha gridato dietro qualcosa in dialetto che né io né Nina abbiamo capito, ma Nononno ha sbattuto la porta e se n’è andato al Circolo sociale. Era molto tempo che non ci tornava. Prima però mi ha chiamato e mi ha ordinato di uscire con lui: voleva parlare con il mio amico, il giovane straniero. Ero stupito, ma con nonno c’era poco da scherzare, così insieme siamo andati a casa di zi’ Salvatore. Mentre i due vecchi parlavano del più e del meno, sono salito. Quando siamo scesi, Nononno era in piedi dalla parte opposta del tavolo. “Ragazzino,” ha detto a Josh. “Stasera, quando arrivano dalla campagna, voglio parlare con i tuoi zii.” Era un ordine militare. Josh ha fatto sì con la testa. “Quando arriva il camion e i braccianti scendono, tu dici ai tuoi che li aspetto alla fontana nella piazza dell’Orologio. Capito?” “Capito,” ha risposto Josh. “Tu andrai con lui,” ha comandato a me. “Quando scendono, vieni al Circolo a chiamarmi.” Poi nonno ha sorriso, e timidamente ha sorriso anche Josh. Allora ho sorriso anch’io. “Qui la mano,” ha detto nonno. “Ce la stringiamo come due adulti.” E Josh ha allungato il braccio. Quando sono tornato a casa, papà ha richiamato ed era felicissimo. Io e Nina siamo stati al telefono con lui per quasi due ore, non riuscivamo a smettere di
parlare, eravamo troppo felici di rivederlo. Lui non ci poteva credere, non tanto per il lavoro (mi sa che non era la sua attività preferita), ma per l’idea di stare con noi, anche se ci aveva spediti laggiù, e di venire ad Arigliana, che per lui era come la Terra promessa per gli ebrei. E così papà, due giorni dopo, ha preso il pullman notturno ed è sceso in Terronia. Quando ci siamo rivisti, lui con una valigia per mano, ero imbarazzato: era un po’ cambiato, però io di più. Infatti, quando è entrato, la prima cosa che ha detto è stata “sei diventato un giovanotto, Pi, devo prendere la scala per salutarti”. Io, se ero cambiato, non me n’ero accorto. Non erano passati neanche due mesi. A lui invece era venuta la pancia che sembrava un po’ incinto, però non gliel’ho detto perché magari ci rimaneva male. Nina invece era il mio contrario, non era per niente timida, e gli è saltata al collo. Papà era felice, con lei ancora aggrappata ha piegato le ginocchia e ha appoggiato le valigie a terra, poi l’ha stretta forte e hanno cominciato a darsi i baci e a giocare. Io sono dovuto uscire, perché troppo affetto dopo un po’ mi soffoca. Ho svoltato l’angolo e sono andato a trovare zi’ Salvatore, era tanto che non ci andavo, mi mancava, ed ero sicuro che fosse solo, perché quella mattina io e Nina avevamo sentito Refè e lo straniero che uscivano insieme, e chissà dove andavano quei due, senza avermi detto niente. Però non ero geloso, lo sapevo che mi volevano, era soltanto che avevano bisogno di stare da soli per fare la pace per bene. Com’era naturale, zi’ Salvatore stava fissando il muro, e si vedeva a occhio nudo che era sempre più decrepito. Si era pure scordato il bastone dentro casa, oppure qualcuno gliel’aveva fregato, perché lì non c’era. L’ho toccato sulla spalla, ma lui ha continuato a guardare avanti senza smettere di sorridere, chi lo sa cosa ha in testa un uomo quando è terminale. Poi, senza girarsi ha detto “sei già tornato, Josh. Hai preso tutto?”. “Non sono Josh, zi’ Salvato’. Sono Pietro, non mi riconoscete più?” Ha girato un po’ la testa dalla mia parte e ha detto “vieni vicino, gli occhi non vanno tanto...”. Stava pure diventando cecato. Allora mi sono avvicinato, e lui mi ha passato la mano su tutta la faccia, in una specie di lunga carezza che non finiva mai. Però ancora non era completamente da buttare, perché aveva usato la mano giusta, quella con tutte e cinque le dita. “Adesso ti riconosco...” ha detto, dopo un pezzo che mi allisciava con quella
mano ruvida come un mattone. “Finalmente sei tornato.” La sua voce era troppo bassa, non è che mi piaceva tanto. “Siete voi che vi siete preso un altro nipote, zi’ Salvato’... Io ve lo devo dire, un po’ ci sono rimasto male.” Ho fatto una risata, se no si intristiva. “William sta in America... L’hai sentito, tu? Sta bene? Che dice? A scuola è bravo?” “Sì, zi’ Salvato’, sta bene e vi saluta tanto. Dice che tra poco vi vengono a trovare tutti quanti insieme.” “Eh, a trovare a me. Sono troppo vecchio. Che vengono a fare, è un viaggio sprecato... Digli di non disturbarsi proprio...” Poi però all’improvviso si è ripreso. “Bene! Qua la casa è tutta a posto, non è mai stata tanto in ordine.” Si è fatto una risata da solo. “Tutto a posto e niente in ordine!” Era tutto contento, era una battuta che faceva sempre. “Siete il più forte di tutta Arigliana, zi’ Salvato’, non vi batte nessuno”, anche le bugie ogni tanto ci stanno bene, per tirare su il morale. Poi ho avuto un’idea. “Perché non mi raccontate del vostro viaggio in nave? Sono anni che me lo dovete raccontare... Di là c’è mio papà, abbiamo tutto il tempo del mondo.” “Quale viaggio, Willy?” Era diventato serio. “Quello che avete fatto fino all’America, quando eravate giovane. Quando avete imparato a sognare... Andiamo, zi’ Salvato’, il vostro viaggio in nave... Fate uno sforzo, su, me ne avete parlato cento volte.” È tornato a fissare il muro tutto serio, sembrava che stava cercando qualcosa, là davanti. Poi, come un segreto, ha sussurrato “io non mi ricordo nessun viaggio in nave, Josh...”. Adesso sorrideva di nuovo senza motivo. Eravamo messi proprio male. “Facciamo così, ve lo racconto io il vostro viaggio in nave, così vi faccio tornare la memoria.” “Ecco, bravo, dimmelo tu, che la memoria oggi non va tanto...” “Allora. Eravate talmente giovane che nessuno vi avrebbe riconosciuto, e in quell’epoca preistorica eravate così coraggioso che non avevate paura di niente e di nessuno. Avete lasciato le case di pietra di Arigliana e siete partito da solo, per trovare fortuna oltre l’oceano. Nelle quaranta notti che è durato il viaggio, ogni volta che vi sdraiavate sul ponte per prendere sonno, perché i soldi per una cabina non ce li avevate, una cometa dal cielo arrivava solo per voi e vi seguiva sul mare, per tutta la notte. Voi stavate sveglio, e ogni notte confidavate alla cometa le vostre preoccupazioni, per aver lasciato la vostra famiglia e i vostri
amici e le case di pietra di Arigliana, e perché avevate paura che dall’altra parte dell’oceano magari non c’era proprio niente. La cometa vi ascoltava e vi sorrideva, e vi diceva che non dovevate preoccuparvi, avreste trovato la terra più bella del mondo, e avreste fatto fortuna... Ogni mattina all’alba vi giurava le più belle promesse che esistono, vi diceva che la paura è una bugia...” Mi sono accorto che si era addormentato. Mannaggia, quel vecchio non mi piaceva proprio come stava. L’ho scosso per la spalla e ha aperto gli occhi, e quando mi ha visto ha sorriso. Sembrava felice. “Che bella storia,” ha detto. “È la vostra, zi’ Salvato’.” “Proprio una bella storia.” “È la vostra, vi dico.” “Io non mi ricordo niente di questa nave. Però mi piacerebbe tanto partire da qualche porto...” “Un giorno partirete, zi’ Salvato’. Non vi preoccupate.” Poi dalla finestra mi ha chiamato Nina. Mi sono girato, e lei era affacciata. Sorrideva. Allora ho salutato zi’ Salvatore e sono tornato da papà, che l’imbarazzo mi era passato. Nina continuava a saltargli addosso e ad abbracciarlo. Anche a me sarebbe piaciuto, però ero troppo grande. Comunque abbiamo giocato tutti e tre un po’ insieme, ed è stato bello, perché era quasi come se non ci eravamo mai separati, e il tempo è volato. Nonna ci ha portato pane e pomodoro per la merenda, ma io giocavo con papà allo schiaffo del soldato. Io glieli tiravo forte e lui piano. Verso le sette è venuto a chiamarmi Josh, e allora mi sono ricordato cosa ci aveva detto nonno. Siamo andati in piazza ad aspettare il camion che a fine giornata scaricava i braccianti: giovani e vecchi, come animali malmessi facevano ritorno alle case, con le ossa rotte. Quando il camion è arrivato, il rimorchio strabordava. Il fumo di scarico nero ha riempito la piazza. I più giovani saltavano giù, i più vecchi si aggrappavano con le mani e si calavano piano piano. Abbiamo aspettato gli stranieri. Mentre Josh si avvicinava a parlargli, io sono corso al circolo da nonno. Quando abbiamo girato nella via che portava alla piazza dell’Orologio, gli stranieri erano già alla fontana.
Josh era piegato e stava bevendo, gli uomini erano in piedi, sporchi di terra, parlavano tra loro. Il sole dei campi aveva scurito la loro pelle. Non c’era nessuno in quella piazza, nonno non voleva farsi scoprire. “Buongiorno,” ha detto da lontano, e già il fatto che Nononno salutava per primo era strano. Loro hanno alzato la mano e hanno fatto un cenno di reverenza. Avevano un modo di fare gentile, anche se erano sporchi e sudati sembravano eleganti. Io e Josh ci siamo guardati. Quando eravamo a due passi, Nononno ha detto “vi devo ringraziare”. Il più giovane ha chiesto “cosa?”, ma il più anziano ha capito e ha alzato le mani. “Non c’è bisogno,” ha detto. “Mio dovere.” “In tutti questi anni non ci ero mai riuscito. Dovevo mettermi con gli altri, ma non volevo.” Era come se parlava tra sé e sé, nonno, però parlava con lo straniero. “Prima non c’erano i funzionari. Adesso conviene mettersi insieme,” ha risposto l’uomo. “Fare le conserve,” ha detto nonno. Mentre parlava ha riso. Non ci credeva che un giorno la terra per lui sarebbe diventata altro che frumento e olive. Però nonno guardava lo straniero da pari. Da uomo a uomo. “Magari non è un male, zi’ Nunzio,” ha detto lo zio di Josh. Allora nonno lo ha fissato dritto negli occhi, quasi preoccupato. “Cosa cercate in cambio?”. L’uomo ha scosso la testa. “Non vi preoccupate, zi’ Nunzio,” ha detto. “Qualcosa in cambio cercherete.” Era il modo in cui nonno vedeva le cose. Lo straniero ci ha pensato. “Ci basta una promessa.” “Avanti.” “Quando avete sistemato le cose ci prendete a lavorare con voi.” Nononno ha annuito. “Con zi’ Rocco non ci possiamo più stare. Ci tratta da animali e non ci dà manco la scodella dell’acqua.” Nonno ha allungato un braccio, lo stesso gesto che aveva fatto con Josh. “Quel giorno portatemi anche gli altri. Avremo bisogno di braccia forti.” L’uomo gli ha stretto la mano. “Mo’ andiamo,” ha detto a me. “Accompagnami al Circolo, che sono vecchio e poi cado.” Ce ne siamo andati. Noi per la nostra strada, gli stranieri per la loro.
29.
Papà in quei giorni era proprio felice, molto più felice di come ce lo ricordavamo. Infatti ho anche pensato che in nostra assenza era andato a trovare mamma nella casa nuova. Magari, ho pensato, se guardo nella sua valigia senza farmi scoprire da Canetto, trovo pure l’altra metà del moncherino di foto, e magari lì dietro c’è la risposta alla mia domanda. Ho provato, ma non c’era niente. Però, se era felice, era anche perché stava nel suo paese con il fisico, e non solo con l’immaginazione. L’idea del lavoro doveva dare proprio molta forza, perché papà era tornato come prima: ci abbracciava sempre, ci faceva il solletico, faceva volare Nina, mi prendeva per le braccia e mi faceva girare, e quando qualcuno gli diceva qualcosa lui rideva e non se ne parlava più. In quei giorni metà del paese era in fibrillazione. Un sacco di gente che sapeva fare molti lavori si era messa insieme per uno stesso scopo. Sembrava che non si doveva chiedere più niente a nessuno. Sembrava che c’era già tutto quello che ci doveva essere. Nononno, Nononna, papà e gli altri passavano tutti i giorni della settimana, dalla mattina alla sera, sabati e domeniche inclusi, al di là del torrente. Nonna aveva anche messo un bel cartello sulla porta della bottega: CHIUSO FINO A QUANDO NON RIAPRIAMO
Lei lo aveva dettato, e io lo avevo scritto. Avevamo riso tanto che mi era venuto il singhiozzo. Peppino il barista sembrava tornato ragazzo. Nononno dirigeva i lavori, e con l’aiuto di Domenico, Enzuccio e i loro padri, che sapevano fare tutto, e delle braccia di Franco e di papà, in poco più di due settimane siamo riusciti a rimettere a nuovo la vecchia masseria. Io e Refè avevamo avuto dai Nononni il permesso di far venire anche Josh, almeno dava una mano e poi faceva qualcosa di diverso. Pure zi’ Salvatore avrebbe voluto stare con noi, ma era troppo vecchio, e poi per sognare gli bastavano i racconti di Josh quando tornava a casa.
I muri di pietra della masseria avevano resistito tutti quegli anni, e anche le travi portanti del tetto. Avevano sostituito le altre e le avevano ricoperte con tegole di ardesia. I pavimenti avevano retto: solo nei punti in cui il tetto si era sfondato, ed era entrata acqua, il cotto aveva perso colore. Nononna e Filomena, insieme alla moglie del giudice Lopiano e ad altre donne del paese, lo avevano raschiato e fatto tornare come nuovo. I falegnami, nel grande cortile, avevano tagliato porte e finestre nuove. Poi tutti insieme le avevano montate. Anche il giudice Lopiano in persona si era messo in tuta da lavoro. Insieme al macellaio, il padre di Pasquina, e agli elettricisti avevano rifatto l’impianto elettrico, che si era completamente bruciato. La cucina e l’impianto idraulico invece si erano miracolosamente mantenuti. Il giudice si era pure divertito a tirare tutti quei cavi che correvano dentro i muri, continuava a ripetere “quanto sono lunghi questi fili, non finiscono mai”. Nononna lo guardava lavorare e non era mai stata tanto innamorata. Anche io, Nina, Josh, Refè e le gemelle davamo una mano: avvitavamo tubi, tiravamo cavi elettrici, piantavamo chiodi per fissare gli stipiti delle porte, avvitavamo lampadine. Ci divertivamo un sacco. Josh era forte e veloce. Mentre lavorava ogni tanto parlava nella sua lingua, Peppino il barista lo prendeva in giro e noi ridevamo. Poi se ne accorgeva pure Josh, e rideva anche lui. La masseria non sembrava vera da quanto era bella. Una volta finiti i lavori, il padre di Enzuccio aveva provato ad accendere il camino. Era enorme, e tirava a meraviglia. Nonno era raggiante. Quando ho portato mamma in giro per tutte le stanze della masseria, si è commossa, ed era una cosa che non succedeva spesso. Si è ricordata quando era piccola e Nononno la portava, e le permetteva di dare da mangiare alle caprette. La masseria era più piccola di quella di zi’ Rocco, mancava tutta la parte della produzione industriale, ma l’avrebbero costruita piano piano. Già così, comunque, era magnifica: pietra sui muri, piastre di cotto ai pavimenti, legno e ardesia sul tetto. Poi è stata la volta delle cesoie, e anche quello è stato uno spettacolo. Finita la masseria, tutti i proprietari, anche solo di un pezzetto piccolo di terra, hanno preso guanti e cesoie e si sono messi in fila. Insieme hanno tagliato i fili di ferro arrugginiti che ancora separavano un campo dall’altro.
Era diventata un’unica enorme terra di quaranta ettari. L’avrebbero dissodata, ripulita, arata, fertilizzata, concimata e poi ripiantata. Con nuove sementi. Chi li possedeva ancora, aveva rimesso in funzione i vecchi trattori e le mietitrebbia, rimasti fermi per anni. Ci avevano messo un po’ a riaccendersi, ma andavano, sferragliavano e ruggivano quasi come prima. Senza perdere tempo, Pesciolino, Domenico e Enzuccio e i loro padri, papà e Peppino, e Nononno in persona, erano saliti su quei grandi draghi spaccaterra e avevano cominciato a dissodarla. A “massaggiarla come una donna”, diceva nonno, a coccolarla per prepararla a ricevere le nuove piantagioni. Lei, la terra, lasciava fare, godeva, era stata troppi anni solo a prendere pioggia e sole. Voleva tornare a vivere. Allora sono andato alla garamm’ ad ammirare tutto dall’alto, e per la prima volta ho portato Nina con me. Il serpentone del torrente era sempre lì, immobile di sassi, ma quello che a nord era sempre stato un lenzuolo malmesso con tante pezze diverse, stava diventando il più bello dei mantelli sfavillanti, solcato dagli sbuffi dei trattori. Pomodori, cipolle, olive, melanzane, uva, noci, zafferano. Queste erano le parole che sentivamo pronunciare dovunque. Una sera ci siamo fermati tutti alla masseria per mangiare insieme, dopo una giornata di lavoro. Si doveva trovare il nome della nuova cooperativa agricola di Arigliana. Le donne avevano cucinato un sacco di cose, nel forno di mattoni avevano cotto il pane e con la brace avevano arrostito puntine di agnello. Peppino ha fatto una sorpresa, ha portato gli gnummridd’, una specialità lucana, involtini di interiora di agnello e capretto da latte, avvolti nel budello: una prelibatezza che di solito si mangia a Pasqua. Nononno ha stappato un bottiglione da due litri di vino rosso, mentre Pesciolino cuoceva gli gnummridd’ sulla griglia. Ci siamo seduti fuori, nel cortile della masseria. Accanto al pozzo c’era un grande tavolo di pietra con due lunghe sedute. Tutt’attorno stava crescendo erba nuova. Più i bottiglioni di vino venivano svuotati, più ognuno tirava fuori nomi a casaccio, per la masseria. Facevamo a gara a chi la sparava più grossa. Noi – io, Nina, le gemelle, Giovannino, Refè, Josh, Domenico e Enzuccio – stavamo seduti per terra
sull’erba a mangiare gnummridd’, e ci ammazzavamo dalle risate a vedere i grandi che ne inventavano più di noi. Anche Josh diceva le sue, ma erano talmente sconclusionate che facevano ancora più ridere. Poi Egidio il giornalista se n’è uscito con Olive, noci e zafferano. Tutti erano già un po’ brilli, e hanno iniziato a prenderlo in giro. Poi però ci hanno ripensato. La verità è che non era venuto fuori niente di meglio. Non era molto bello, come nome, però era semplice, e rendeva l’idea. Egidio è andato a prendere un tavolato di legno appoggiato alla stalla. L’ha trascinato fino al forno e ha detto “OLIVE, NOCI E ZAFFERANO, scritto qua sopra. Lo appendiamo all’ingresso ed è la morte sua”. Tutti hanno cominciato a sghignazzare, il giudice Lopiano non riusciva a fermarsi, continuava a ripetere “è la morte sua”, e si vede che quello era l’effetto del vino. Quasi quasi stavano per stappare l’ennesima bottiglia per festeggiare quel battesimo, quando papà è salito in piedi sul tavolo e ha detto: “Perché invece non la chiamiamo Masseria Rosi?”. Rosi è il nome di mamma, anche se per davvero si chiama Rosalba. Era un po’ timido, papà, aveva parlato a bassa voce, si vedeva che si era sforzato a salire sul tavolo per farsi sentire davanti a tutti a dire il nome di mamma. All’inizio nessuno parlava. Nino il farmacista è stato il primo a dire “sì”. Subito tutti lo hanno seguito. Dicevano “bello”, “bella idea”, “Masseria Rosi”. Il giudice Lopiano e sua moglie si sono pure un po’ commossi, hanno tirato fuori un fazzoletto bianco, ma credo che era sempre per via del vino. Io ho guardato Nina, che guardava nonno. Nonno ha guardato Nononna, e lei ha fatto di sì con la testa. Masseria Rosi sarebbe stato il nome della nuova Masseria Lucania. “Bravo Bia’, vieni qua. Proprio una bella idea,” ha detto Nononno dopo un po’. “Masseria Rosi.” E ha fatto il gesto con la mano, come se già lo vedeva scritto in grande sopra il cancello, chiaro e torno. Nonno era orgoglioso di papà. Si vedeva perché è diventato un po’ sentimentale, e io nonno sentimentale non l’avevo mai visto. L’ha pure abbracciato, e papà era felice: gli brillavano gli occhi. Anche Nina era felice. Allora ero l’unico a cui quell’idea non piaceva tanto. Se mamma si voleva sentire così importante doveva essere lì con noi. Troppo comodo così. Alla
lontana. Questa cosa non mi piaceva proprio: se avevo ancora l’età per fare i capricci ne facevo tantissimi. Gli uomini hanno iniziato a brindare di nuovo, a quel nome e a tutto il futuro della nuova masseria. Dopo un po’ avevano bevuto troppo, si capiva perché alcuni si sdraiavano sull’erba con il braccio davanti alla faccia. Le donne hanno detto che prima di tornare al paese, in macchina, bisognava aspettare un po’. Tutti i grandi fumavano le sigarette sdraiati sul prato e guardavano la valle. E, dopo la valle, là sopra, guardavano le luci di Arigliana. La torre, la piazza. I grilli cantavano. Finalmente nessuno più parlava. Quel posto era bello, sembrava un presepe. Metteva pace. Quando siamo tornati a casa, prima di dormire, ho preso il quaderno e mi sono appuntato una cosa importante. Nella vita è meglio essere coraggiosi che sapere le cose. Di gente che sa una cosa o l’altra è pieno, ma di gente coraggiosa come lo straniero adulto che senza saperlo ha cambiato Arigliana, invece no, ho scritto. Ho dato la buonanotte a Nina, ma quel giorno si era agitata troppo. Infatti dormiva già.
30.
La mattina dopo, dalla prima edizione del telegiornale locale, Nononno ha sentito la notizia e nonna ci è venuta a svegliare: a Rutulano era arrivata un’altra famiglia di dieci stranieri. Li aveva trovati la polizia locale mentre camminavano sul ciglio della strada statale per Foggia. Allora i Rapatorti e i Capazzapponi avevano ragione, ne sarebbero arrivati tantissimi. Era una cosa che non si poteva evitare. Quella mattina niente masseria, perché tutti andavano al Comune. Allora ci siamo andati anche noi. Quando siamo arrivati, il sindaco nostro cugino era sulla porta del Municipio, e si vedeva che aveva paura. Fuori erano raccolti molti dei braccianti di zi’ Rocco. Per la prima volta, alla luce del sole stringevano le mazze e i forconi che usavano di notte, quando facevano le ronde. La Rapatorta si è avvicinata al portone e ha minacciato Ninuccio, in mano teneva una mazza di legno. “Non ti voteremo mai più. Mo’ vedrai che ne vengono altri pure qua. Li devi cacciare uno a uno. Subito. Così sanno che qua non trovano casa. Oppure li cacciamo noi”, e ha alzato la mazza. Ninuccio non ha saputo cosa rispondere. È tornato dentro, sbattendo il portone. La notte dopo, in paese, era salita dai campi una squadra numerosa. In quei cortei, all’inizio, c’erano solo i figli dei Capazzapponi e la Rapatorta. Poi si erano aggiunte sempre più persone. Sembrava che quello che Refè aveva provato a fare a Josh, gli adulti lo volevano fare per davvero. Nononna era preoccupata. Nononno no, diceva che era tale e quale a quando lui era giovane: non passava giorno senza che c’erano le ronde. Tutti in paese erano preparati a una risposta da parte di zi’ Rocco per i lavori alla Masseria Rosi, e invece zi’ Rocco rimaneva in silenzio. Allora, anche molti di quelli che avevano sempre campato sulle spalle dello Stato avevano deciso di scendere dopo il torrente a piantumare e a piantare
pomodori e zafferano. Dall’altezza della torre, quei quaranta ettari di terra erano punteggiati di cappelli bianchi, la puzza di letame arrivava fino a là sopra. La casa di Nononna era di nuovo aperta, come un tempo, per chiunque voleva entrare. E questa, per me e Nina, era una delle cose più belle. In quei giorni era sempre festa. Il portone non veniva nemmeno chiuso, si poteva entrare e uscire a piacere. La casa era diventata un po’ la casa di tutti. Le cene erano sempre in sala da pranzo, e non si poteva mai sapere in quanti saremmo stati. Per fortuna nel magazzino i nonni avevano un grande tavolaccio di legno con i cavalletti, le prime volte lo trasportavamo avanti e indietro, poi lo avevamo lasciato lì direttamente. Di giorno, invece, tutti insieme mangiavamo alla masseria. Le cose sono andate avanti in questo modo fino a Ferragosto. Noi bambini eravamo felici perché quelli erano giorni di feste bellissime. I giorni prima del 15 agosto, i maschi si travestivano da tori, al collo portavano campanacci e guidavano la processione per le strade di Arigliana. Bussavano alle porte delle case a chiedere cibo e vino. La mattina del 14, il paese intero andava al bosco di Chianosa. Gli uomini tagliavano dalla base due grandi alberi. Uno era il maschio, quello più piccolo la femmina. Poi mimavano una danza tra i fusti, e l’accoppiamento. Era la festa della fecondità: una tradizione millenaria. A Ferragosto, invece, c’era la festa dei fuochi d’artificio, e l’usanza di Arigliana era che tutti dovevano sparare più fuochi che potevano. Con i suoi razzi o con i suoi botti, ognuno doveva contribuire ad ammazzare il Demonio, e quando devi ammazzare il diavolo tutto è permesso. A me la festa di Ferragosto piaceva tantissimo. Non esiste niente di più bello che ammazzare il Demonio, perché non c’è una volta, quando mi prende la malinconia, che non ci sia anche lui, con quel faccione rosso: fa tanto lo spaccone solo perché sono ancora un bambino minorenne, appena cresco gli faccio vedere. Così, tutti andavano a comprare miccette, raudi, cipolle, razzi, torte a esplosione multipla, missili, fontane luminose, tric e trac, bengala, bombe spread: qualunque cosa esplodeva andava bene. I grandi organizzavano viaggi a Matera, alcuni arrivavano fino a Bari, e ogni anno i Rapatorti dicevano che andavano a Napoli a prendere i loro botti, e anche se nessuno ci credeva tutti facevano finta di sì. E comunque bisogna dire che i botti erano l’unica cosa che i Rapatorti sapevano fare bene. Io non ero mai andato da nessuna parte, neanche a Matera, perché i Nononni dicevano che ero troppo piccolo, e pure mamma e papà non mi facevano andare,
nemmeno con Domenico. Lui risparmiava i soldi tutto l’anno, si metteva sul postale la mattina del 14 agosto e alle nove era il primo a entrare nel negozio di fuochi d’artificio. Però i soldi di Domenico ogni volta erano pochi, anche se li raccoglieva insieme a Enzuccio. Al massimo riportavano i fischioni, i razzi che fanno la scia corta e muoiono subito, però tantissimi Magnum, e i Magnum fanno dei botti talmente potenti che un anno uno che è scoppiato dentro il bar di Peppino ha fatto diventare sordo zi’ Vincenzino una volta per tutte. Pure Ninuccio il sindaco nostro cugino andava di persona a Matera a comprare i fuochi comunali: erano belli, ma non come quelli dei Rapatorti. Io, Nina, le gemelle, Refè, Domenico e gli altri abbiamo deciso di andare sulla collina, alla Masseria Rosi. È venuto anche Josh, ormai lui e Refè erano proprio amici, i giorni che avevamo trascorso insieme a rimettere a nuovo la masseria ci avevano resi inseparabili. Nina e le gemelle avevano organizzato tutto per zi’ Salvatore in modo che stesse in piazza con Peppino, e io, Refè e Josh eravamo pure andati dai suoi zii a chiedere il permesso che Josh non mangiasse con loro alla casupola alla fontana di Maria Bambina, che era dove loro avrebbero passato la notte di Ferragosto, pure se per una volta cucinavano la carne grigliata alla maniera del loro paese che a lui piaceva molto. Eravamo stati io e Refè ad avere l’idea di andare su alla masseria. Per vedere i fuochi quello era il posto più bello di tutta Arigliana, in campagna c’era il buio, e poi dalla valle si vedevano le scie che salivano dalla piazza e scendevano fino alle terre. Domenico ed Enzuccio avevano pure qualche soldo in più degli altri anni, e hanno comprato certi razzi lunghi che non finivano subito, sembravano quasi razzi veri. Josh e Refè quella sera hanno mangiato con noi a casa dei Nononni. Poi siamo saliti alla masseria tutti insieme. I nonni, con gli altri grandi, sarebbero rimasti in piazza, oppure alla piazza alta, e da lì avrebbero ammirato i fuochi. In fila indiana, Domenico in testa, con le torce e gli accendini siamo usciti dal paese camminando sulla provinciale, stando attenti alle macchine che di sera ad Arigliana vanno fortissimo e fanno fischiare le gomme alle curve. Poi abbiamo attraversato il ponte sul torrente. C’era un vento fresco e pulito che accarezzava i capelli. Dopo il ponte abbiamo preso il sentiero sterrato che dalla valle si
arrampica fino alla collina della masseria. Fino a poco tempo prima l’erbaccia, lungo i due lati di quella stradina, era alta due metri. Adesso era stata tagliata con le mietitrebbia, e la terra rivoltata odorava di fresco e di buono. Ci siamo fermati nello spiazzo davanti alla masseria. Alle nostre spalle, il cancello aperto con la scritta MASSERIA ROSI. Uno di fianco all’altro, ci siamo seduti sull’erba. In lontananza si vedeva la torre illuminata di Arigliana. Poi sono cominciati i primi botti: secchi, senza luce. Bom-bom-boom. Le danze si aprivano. Subito dopo, i primi ombrelli colorati e le rose infuocate: partiva la scia di luce e silenzio, poi l’ombrello si apriva nel cielo in mille colori, e solo allora arrivava il botto sordo. Tuf. Le rose di fuoco invece illuminavano i campi. Ta-ra-ta-ra-tara-ta-ra-ta-ra-tà. Il cielo era nerissimo e punteggiato di stelle. Puro, spazzato dal vento. Quando partivano i razzi, le rose infuocate o la pioggia luccicante, il cielo si illuminava a giorno: le cose brutte non erano mai esistite, insieme potevamo sconfiggere quel cornuto del Demonio. “Quann c’è vent’ è ancora cchiù bell,” ha detto Domenico, “ca le fuc’ d’artificio s’allargano e si ingrandiscono.” Era vero. “Par’ ca te cadon ’n cap’,” ha detto Refè. Stavamo imbambolati con la bocca aperta a guardare nel vuoto, tanti stupidi in fila, finché Domenico si è alzato e ha detto a Nina: “Allora, che facciamo Ni’, li facciamo pure noi?”. Nina è schizzata subito in piedi felice, poi si sono aggiunte le gemelle e Pasquina, e tutte e tre insieme hanno cominciato a fare chiasso e a saltare. Domenico ha aperto i sacchetti, e con Enzuccio hanno iniziato a preparare. Hanno piantato i razzi nel terreno, collegato gli spaghi di tutti i tric-trac, così non finivano più. Hanno distribuito ai maschi i Magnum e gli accendini, alle femmine le stelline luminose che fanno quelle scintille un po’ loffie – ma loro erano contente lo stesso. Josh non voleva sparare i Magnum, era rapito dallo stupore e si tappava le orecchie – secondo me pensava al suo paese, perché di colpo si è rattristato. Allora Nina gli ha messo la mano sulla spalla, e anche se era più piccola gli diceva di non preoccuparsi, che non era la guerra vera ma una battaglia contro il Demonio, e se lo sconfiggevamo poi finivano pure le guerre vere. Josh ha fatto di no con la testa, significava che non ci credeva, e mentre
Domenico ed Enzuccio si preparavano a fare la loro parte nella baraonda dei fuochi, si è alzato: si è incamminato facendo scricchiolare la ghiaia del cortile, e ha oltrepassato il cancello della Masseria Rosi – si vedeva che voleva stare da solo. Io e Refè l’abbiamo guardato allontanarsi, poi Domenico ha acceso il primo fischione e ha detto “Refè, spar’ nu Magnùm!”, e Refè non se l’è fatto ripetere due volte, ha acceso il petardo, l’ha tenuto in mano e solo alla fine l’ha lanciato giù nella valle: il petardo è scoppiato in volo e ha fatto un gran botto. Domenico allora ha sparato un razzo infuocato, e tutto si è illuminato di una luce rossa e potente. Tra un botto e l’altro si sentivano i passi di Josh. Refè l’ha chiamato, “Jo’, do’ vai, vieni qua, n’ divertim a fa’ l’ bott’. È bell’!”. Ma Josh ha continuato a camminare verso il retro della masseria, dove si vedeva l’altra parte della valle, dove si aprivano le nostre nuove terre, il futuro di papà e anche il nostro, e in lontananza Rutulano e Galviano splendevano come lucciole. Abbiamo acceso tutto quello che avevamo, nell’aria l’odore della polvere da sparo era ovunque: dovevamo unire i nostri fischioni a quelli dei Rapatorti e del Comune, e di tutti gli altri giù in paese, dovevamo fare la nostra parte contro quel bastardo del Demonio. Avevo le mani nere di polvere da sparo. Quando mi sono girato non ho visto più Nina, invece le gemelle e Pasquina erano lì con le stelle luminose in mano. Ho cercato Nina con lo sguardo, ma non la vedevo. Refè, che era esaltato per via dei fuochi d’artificio, ha capito subito e mi ha fatto l’occhiolino. Ha indicato col mento dietro la masseria. Poi ha acceso un’altra scarica di tric-trac. Ho attraversato il cancello e sono andato a vedere. Ho svoltato l’angolo della masseria, dove c’era la struttura di legno delle stalle. C’era puzza di benzina, ho pensato che arrivava dai trattori e dalla mietitrebbia parcheggiati nel capanno lì vicino. Mi sono avvicinato piano e, riparato dietro la balaustra della veranda sul retro, li ho visti. Josh era seduto sul primo gradino sotto il porticato, con la testa tra le mani. Nina era in piedi di fronte a lui, sull’erba, e in silenzio lo guardava. Magari lui neanche sapeva che lei era lì. Alle spalle di Nina si aprivano il nero della valle e
la strada sterrata più larga, quella che si staccava dalla provinciale e saliva fino alla masseria. Chissà che mi ero immaginato. Sono tornato dagli altri a dare fondo ai botti. Poi all’improvviso mi è arrivato un vento caldo in faccia. Domenico è rimasto con un fischione spento in mano, Enzuccio puntava l’indice lontano, verso le campagne. Refè ha detto “ma che cazz’ è?”. Allora, in mezzo alle rose di fuoco e agli ombrelli che partivano dalla piazza e illuminavano il cielo, io, Refè, Domenico e Enzuccio ci siamo precipitati giù per la distesa d’erba che circondava la masseria. Volevamo vedere. Correvamo, nessuno aveva fiato per parlare. Davanti a noi, in lontananza, la terra andava a fuoco. Era una visione terribile. Erano fuochi ancora bassi, ma estesi su tutta la larghezza delle terre: seguivano la curva del torrente. “Stann’ mettenn’ fuc’! Stann’ mettenn’ fuc’!” ha gridato allora Domenico, mentre continuavamo a correre giù, e il vento caldo di stoppia ci bruciava le narici. Dopo qualche metro ci siamo bloccati: il vento era forte, le fiamme si alzavano e avanzavano a una velocità impressionante. Il fuoco stava prendendo tutta la terra. “Le noci...” ha detto Refè. “Le noci...” E ha indicato. Stava bruciando tutto. Non solo le noci, ma anche le viti, gli ulivi, lo zafferano. Tutto. Era l’inferno. “Il Demonio,” ho detto io. “Il Demonio è venuto a vendicarsi.” Era un mare infinito di lampi rossi, un mare che montava in una mareggiata spaventosa. In cielo, i fuochi d’artificio illuminavano a intermittenza quelle onde rosse, gialle, bianche. È stato in quel momento che abbiamo sentito uno scoppio fortissimo, come se un albero si fosse spezzato in due, o come una bomba che esplodeva. Lo scoppio arrivava dalla cima della collina, ma eravamo troppo a valle, adesso, per vedere la masseria. Siamo risaliti di corsa. Mentre correvo non pensavo più a niente, avevo soltanto la faccia di Nina
dentro la mia e il suo respiro dentro il mio, come quando dormivamo e ci tenevamo la mano. Adesso ero davanti al cartello della Masseria Rosi, sulla ghiaia. Dal retro arrivava un calore fortissimo: anche alle spalle della costruzione, in lontananza, le terre bruciavano. Ho guardato dappertutto, ma in un angolo c’erano solo le gemelle abbracciate a Pasquina: piangevano immobili, non sapevano che fare. Ho chiamato Nina con tutta la voce che avevo. “Nina! Ninaaa!”, ma il grido si è perso tra i botti che arrivavano da Arigliana. Allora sono corso dietro la masseria, dove l’avevo vista con Josh. Non ero io che correvo, era una forza più grande di me. Non mi sentivo fiaccato, non avevo il fiatone, ero invincibile. Ho guardato oltre la balaustra, nel porticato, ma Nina e Josh non c’erano più. C’erano solo le terre che bruciavano. Mi è preso un terrore profondissimo, talmente profondo che non lo so spiegare, so solo che i piedi hanno cominciato a sprofondare dentro la terra, poi è stata la volta dei polpacci, delle gambe, della vita e delle spalle, avevo fuori soltanto la testa e non riuscivo a muovermi. All’improvviso un altro scoppio, ancora più forte, ancora più vicino: un boato fortissimo. Mi sono girato e c’era la parte destra della masseria, dov’erano le stalle, completamente mangiata dalle fiamme. Lì era tutto legno, il tetto ha preso fuoco e la campagna si è illuminata a giorno. Le vacche e le pecore chiuse dentro lanciavano versi feroci. Io non riuscivo più a muovermi. Il fuoco divorava ogni cosa. La pelle bruciava, la cenere volava negli occhi. C’era solo una cosa che potevo fare. Mi sono sforzato e ho portato la mano al petto. Ho toccato il sacchettino che tenevo al collo, quello col moncherino di foto. È stato allora che mi sono sentito tirare da un braccio. Era Refè. Mi ha strattonato, poi mi ha trascinato verso il cortile della masseria. Mi ha lasciato lì, in piedi, ed è corso ad aprire il portone della stalla. Ma il lucchetto era chiuso. Le fiamme si sono alzate ancora, e a quel punto non c’era più niente che non era illuminato, ed è stato ovvio che era la fine. Le gemelle, Enzuccio e Domenico chiamavano “Ninaaa! Jooosh!”, ma nessuno rispondeva.
Refè ha gridato “faccio il giro da dietro”, poi è sparito e dopo un po’ è spuntato dall’altra parte della masseria. Dopo un po’ abbiamo sentito. “Eccoli!” ha gridato. “Eccoli!” Ci siamo girati tutti da quella parte e li abbiamo visti. Josh teneva in braccio Nina. Stavano riparati dentro il capanno di lamiera per i trattori e la mietitrebbia. Abbiamo corso come non avevamo mai corso nella nostra vita. Giù per la strada sterrata, proprio al centro delle terre che andavano a fuoco, poi finalmente sull’asfalto della provinciale. Domenico davanti, poi Refè, poi io e Nina e Josh, poi gli altri. Correvamo talmente forte che non sentivamo niente, solo il cuore che pompava nel petto. Il calore in mezzo al fuoco era opprimente, la pelle bruciava, la fuliggine si attaccava in gola e impediva di respirare. Sulla provinciale, nella direzione opposta, scendevano le macchine che uscivano dal paese e correvano verso la campagna. Le persone gridavano in un dialetto così stretto che non capivo, sembrava una lingua di animali impazziti. Tutti portavano taniche d’acqua, secchi, bacinelle, contenitori, qualunque cosa. Senza più fiato, siamo arrivati al ponte di pietra sul torrente. A quel punto eravamo in salvo, già dall’altra parte, dove la provinciale si trasforma nella strada che entra in paese. Solo dopo, con un ritardo folle, da Galviano è arrivata l’autocisterna dei pompieri. Ma tutti avevano già portato quello che potevano, e su quelle fiamme ci avevano spremuto l’acqua di Arigliana fino all’ultima goccia. Le fiamme erano rimaste alte, volavano velocissime trasportate dal vento. Adesso eravamo in piazza. Schiacciati contro la ringhiera di ferro, in silenzio abbiamo guardato giù. I campi erano accesi. I fari delle macchine salivano e scendevano per le curve come formiche luminose. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Il fuoco aveva mangiato tutto. Dopo molto tempo, con la voce ancora spezzata in gola, Josh ha detto qualcosa. “C’era una macchina nera,” ha detto. Nessuno ha risposto. “Una macchina
nera. E c’era pure puzza di benzina.” La puzza l’avevo sentita anch’io, dietro la masseria. Anche Nina ha parlato, senza staccare gli occhi da dove tutto stava bruciando. “È arrivata una macchina nera,” ha detto Nina a bassa voce. “Qualcuno è sceso. Sono andati verso la stalla. Poi sono risaliti, e se ne sono andati. C’era puzza forte di benzina.”
31.
Per tutta la notte, nella cucina e nella sala c’era stato un grande andirivieni di persone. Il sindaco, il maresciallo, il dottor Vitti, tutti quanti volevano parlare con Nononno. Aveva dovuto sbrigare tutto nonna. Nonno si era chiuso in camera da letto e non voleva vedere nessuno. Nononna aveva bussato mille volte, altre mille era entrata a guardare: Nononno stava sempre sdraiato, la luce accesa, a fissare il soffitto. Sembrava morto. Lei gli parlava, gli annunciava le visite, gli portava un caffè caldo. Lui nemmeno rispondeva. Quando la mattina mi sono svegliato erano quasi le dieci, e Nina era già scesa in cucina. Ho preso a frugare nell’armadio e nel comò, in tutti i cassetti, se per caso non c’era l’altra metà del moncherino di foto che mi aveva salvato dall’incendio. Ho trovato solo un vecchio fazzoletto usato e indurito che doveva essere stato di Nononno. Allora sono sceso anch’io, papà era in cucina seduto nella poltrona di nonna, e già era una cosa strana perché nessuno a parte noi e lei ci si poteva sedere. Papà stringeva una tazza di caffelatte e fissava il vuoto, scuoteva la testa e sottovoce diceva “non è possibile... Non è possibile... Di nuovo la notte di Ferragosto... Non è possibile”. Nonna ha aperto lo stipo della cucina ma i biscotti erano finiti. Allora è andata al magazzino a prenderli. Mentre usciva è arrivato il dottor Vitti. “Li hanno portati d’urgenza all’ospedale di Matera,” ha detto. “Solo uno è grave: ha una frattura al cranio e tre costole rotte.” Poi è salito. Ha bussato alla camera dei nonni e si è annunciato. È stato l’unico che nonno ha fatto entrare. “Chi?” ha chiesto Nina, ma papà non ci ha voluto rispondere. Per lui eravamo ancora bambini e non potevamo capire. Quando è tornata Nononna, i biscotti avvolti in un tovagliolo, le abbiamo
chiesto cosa voleva dire Vitti, che tanto di sicuro sapeva già tutto. Però, visto che papà aveva detto “niente”, allora nonna ci ha trattato come bambini piccoli, ci ha dato i biscotti e basta. Ci siamo lavati un po’ in fretta, tanto quel giorno nessuno avrebbe fatto caso a noi (solo mamma, per tutto il tempo che eravamo stati in bagno, non ha smesso di borbottare “lavatevi bene la faccia, e le orecchie, e anche il collo, che ieri sera eravate pieni di fuliggine”. A mamma la notte prima stava venendo un colpo, quando aveva visto le fiamme per poco non sveniva, dalla paura che ci succedesse qualcosa), poi siamo usciti e siamo andati al bar di Peppino, perché se volevi sapere una cosa era lì che dovevi andare. E infatti abbiamo saputo, perché lì tutti non parlavano che di quello: la notte, dopo che le terre e la masseria erano andate in fumo, un gruppo di persone aveva teso un agguato per strada agli stranieri, che come tutti avevano aiutato a spegnere il fuoco. Li avevano portati in un vicolo cieco e li avevano presi a bastonate. Tutti e sei, comprese le donne. I più giovani si erano ribellati, ma avevano solo peggiorato la situazione: uno di loro era in fin di vita, in ospedale. Cantavano inni violenti, inni contro gli stranieri. Anche le donne erano state picchiate, ma per fortuna erano riuscite a tornare a casa dei Lopiano. Nessuno pensava che fosse una cosa ingiusta: tutti, al bar di Peppino, erano convinti che a incendiare i campi fossero stati gli stranieri. Qualcuno doveva avere la colpa: la sventura non arriva da sola, c’è sempre qualcuno che ce la porta. Io e Nina siamo usciti dal bar e ci siamo affacciati dalla piazza. La terra, al di là del torrente, non era più verde e gialla. Era nera, e fumava ancora. Era un unico, enorme, braciere spento. Di tutto quello che era stato piantato, l’uva, il frumento, le noci, gli ulivi, lo zafferano, erano rimasti i carboni. Anche la masseria era andata distrutta. Quello che non aveva fatto il tempo, l’aveva fatto l’incendio in una notte. C’erano ancora i muri di pietra, ma erano spariti il tetto e le porte, le finestre, non c’erano più né il fienile né la stalla degli animali, e nemmeno gli animali. Dei trattori e della mietitrebbia rimanevano le carcasse annerite e fumanti. Attorno era tutto una desolazione. Io e Nina non sapevamo dove andare. Allora siamo saliti sulla torre, che nei secoli ne aveva viste chissà quante e non
aveva mai parlato. Ci siamo arrampicati. Al primo piano, dentro lo stanzone, seduti a terra c’erano Refè, le gemelle e Josh: avevano avuto la nostra stessa idea. Siamo scoppiati a ridere tutti insieme, e almeno ci è passata un po’. Due giorni dopo abbiamo sentito il fischio delle sirene e noi ragazzi siamo usciti di corsa dalle case dove stavamo rintanati: di giocare nessuno aveva più voglia. Anche Nononna è corsa fuori dalla bottega per capire cosa stava succedendo. Piano piano, tutti quelli che vivevano lì vicino hanno fatto lo stesso. Erano tre auto, c’erano quella di Umberto il maresciallo e altre due di colleghi arrivati da Matera. Si sono fermati nello slargo davanti al palazzo del giudice Lopiano, e hanno spento le sirene. Sono usciti in sei, le mani sulle fondine e gli occhi bassi. Refè, invece, gli occhi ce li aveva spalancati, Domenico stava appoggiato al muro e li guardava con aria di sfida. Josh si era accucciato a terra vicino alla casa dei Capazzapponi, che abitavano in quello stesso slargo. Nina e Pasquina si mangiavano le unghie, le gemelle erano in casa e non sapevano cosa stava succedendo. I carabinieri hanno bussato al portone, con gentilezza. Hanno aspettato, poi sono entrati tutti e sei. Nel frattempo là fuori si erano raccolte un sacco di persone, e ognuno diceva la sua. Dopo dieci minuti i carabinieri sono usciti. Umberto chiudeva la fila, in mezzo le donne straniere camminavano a testa bassa una dietro l’altra. Ai polsi avevano le manette. La nonna piangeva, era tornata una vecchia tartarughina, e a me si è stretto il cuore. Le due più giovani le dicevano qualcosa, ma lei era distrutta. Non me l’aspettavo, pensavo che fosse invincibile, ma quello era troppo. Poi, velocemente, un carabiniere le ha posato una mano sulla testa e l’ha spinta in macchina. Lo stesso per le due donne più giovani. Hanno acceso le sirene e le hanno portate via. La Rapatorta, da là dietro, ha cominciato a raccontare. Quella mattina, subito dopo l’alba, i carabinieri erano andati nella campagna di zi’ Rocco e avevano arrestato l’unico straniero che non era finito all’ospedale. I ricoverati invece erano sorvegliati da un piantone fuori dal reparto di rianimazione. I presenti annuivano, sembravano soddisfatti. “Giustizia è fatta,” ha detto la Rapatorta.
“Hanno avuto quello che meritavano,” ha detto Capazzappone. Nessun altro parlava. Noi ragazzi ci siamo guardati. Perché gli adulti non capivano niente? Tutti in paese sapevano che gli stranieri quella sera erano nella casetta di pietra alla fontana di Maria Bambina, dall’altra parte del paese, a grigliare la carne. Se c’era qualcuno che non c’entrava niente con l’incendio, erano loro. “Andiamo subito a dire al sindaco e al maresciallo di quella macchina dietro la masseria! Poteva essere la macchina di zi’ Rocco! E poi la puzza di benzina!” ha detto Nina. “È sicuro che gli stranieri non c’entrano.” “Shhh.” Le ho dato una gomitata. Quando aveva nominato zi’ Rocco tutti si erano girati a guardarla. Nina ha alzato il mento come per dire di farsi i fatti loro. Josh ha scosso la testa. “Non abbiamo le prove,” ha detto sottovoce. “Ma i tuoi parenti non hanno la macchina,” ha risposto Nina. “È solo quello che abbiamo visto tu e io.” Josh non la guardava negli occhi. “Perché dovremmo inventare delle cose?” “Servono vere prove, altrimenti non ci ascolteranno mai,” ha detto Domenico. E infatti era così.
32.
Da quando i suoi parenti erano stati arrestati, Josh aveva cominciato a sentirsi solo per davvero. Stava pure diventando matto, viene da pensare che a quel punto è meglio finire in prigione, così non se ne parla più. Per fortuna c’eravamo noi che lo proteggevamo, ci mancava solo che quei pazzi dei Capazzapponi e dei Rapatorti lo portavano in un vicolo e lo ammazzavano di botte. Ogni cosa che facevamo, la facevamo tutti insieme, con Domenico, Enzuccio e gli altri, femmine comprese: almeno lo scortavamo, ed eravamo più tranquilli. Comunque, la verità è che le rotelle di Josh stavano andando fuori posto, perché si era messo a seguire zi’ Rocco. Stava appostato in piazza, e quando lo vedeva arrivare, a piedi o sulla sua Maserati, cercava di seguirlo. Era completamente andato. Poi Josh ha cominciato a dire che una sera aveva perso le tracce di zi’ Rocco alla piazza dell’Orologio, e dopo poco aveva visto quattro ombre dietro una delle finestre nel palazzo della Menzasignor. Secondo lui quelli erano zi’ Rocco e le sue guardie del corpo. Non c’era verso di convincerlo che era impossibile. Era sicuro di averli visti, e continuava a ripeterlo. “Seee, come no,” ha detto Refè. “So giut’ a rubba’ l’anim’ a l’fantasm’!” “È più facile che uscivano dalla capa tua,” ha detto Pasquina. “È da mo’ che là dentro non ci vive nessuno, manco i fantasmi,” ha aggiunto Domenico, che alla storia della Menzasignor diceva di non averci mai creduto, però lì dentro non ci era mai entrato. Comunque, erano due giorni che Josh si era chiuso notte e giorno dentro il lammione sotto la casa di zi’ Concetta, proprio di fronte al palazzo della Menzasignor, e non ne voleva sapere di uscire. Si era fissato che voleva capirci di più. Zi’ Salvatore però era più di là che di qua, e ormai faceva fatica anche a parlare, chissà dove aveva messo la sua voce di velluto, e quando parlava,
parlava solo con William, con la sua foto incorniciata, e del resto lui l’aveva conosciuto solo così. C’era pure un’altra fotografia appesa in quella stanza, che era una cucina e una sala insieme, ed era una foto di zi’ Salvatore con sua moglie sotto il ponte di Brooklyn, alle spalle tutti i grattacieli della città di New York. Però era talmente giovane che non poteva essere lui, di sicuro era qualcuno che gli assomigliava, era troppo sorridente e pieno di forze: con una mano abbracciava quella ragazzina timida e con l’altra teneva sollevata per aria una bicicletta da corsa, tanto per fare lo spaccone. Pure zi’ Salvatore aveva le rotelle fuori posto, magari era l’aria di quella casa, diceva che Billy il nipote lo andava a trovare, che arrivava di notte e la mattina se ne tornava in America. La terza mattina dopo i suoi appostamenti, Josh è andato a chiamare Refè, poi insieme sono venuti a tirare me giù dal letto. Di nuovo aveva visto dei movimenti dentro il palazzo della Menzasignor. “Te lo sei sognato,” diceva Refè, mentre io facevo colazione e Josh si finiva tutti i biscotti di Nononna, chissà da quanto non mangiava. “Non me lo sono sognato, vi dico che l’ho visto,” insisteva Josh. “Eccome no, era buio,” ha risposto Refè. “Ma quelli avevano le torce, li ho visti dietro le finestre. Sono stati un po’ dentro una stanza al piano di sopra, poi sono spariti.” “E chi erano?” ho chiesto. “Il fantasma Formaggino,” ha detto Refè. “No, quelli erano veri come me e voi,” ha risposto Josh, mentre Nononna gli versava altro latte. Parlavamo piano per non farci sentire da lei, ma tanto era un po’ dura d’orecchi. “Veri? Eccome no. Nessuno potrebbe vivere là dentro, quel posto è stregato.” “Quelli erano zi’ Rocco e le sue guardie del corpo. Ve lo giuro su Dio,” ha detto Josh.
33.
Josh stava organizzando un piano per scavalcare il cancello ed entrare dalla Menzasignor, ma c’era troppa gente che passava, e bisognava distrarre zi’ Concetta che stava sempre seduta nella poltrona sotto il porticato. Ma poi Filomena è venuta a cercare Josh, insieme a Nononna, perché zi’ Salvatore non stava bene. La notizia si era sparsa subito per le case di pietra del paese, la Rapatorta andava in giro a dire “gli stranieri hanno portato le malattie e hanno fatto ammalare zi’ Salvatore. Ci ammazzeranno uno a uno, sono contagiosi”. Avevano trovato il vecchio svenuto sulla sedia, col bastone in braccio, e avevano pensato che se n’era andato al Creatore e tanti saluti a tutti, invece non era così. Nononno, che in queste cose ci vedeva sempre nero, aveva detto a papà di andare a chiamare don Eustachio, perché lui con quello non ci voleva avere niente a che fare, ma poi il prete era dovuto tornare a casa perché zi’ Salvatore non aveva avuto nessuna voglia di traslocare. A quel vecchio piaceva tirare brutti scherzi: appena era arrivato il dottor Vitti si era ripreso come se niente fosse. Era tutto arzillo. Quando io, Refè e Josh siamo arrivati, zi’ Salvatore era sdraiato sulla branda nella stanza al pianoterra. C’era il dottor Vitti che dava ordini a Nononna per fargli un’iniezione (Nononna aveva sempre fatto le iniezioni a tutti, in paese), perché lui era troppo vecchio, e per colpa del tremolio non riusciva più. Pure Nononna era vecchia, anzi più di lui, però il tremolio non ce l’aveva. “Ci avete fatto spaventare, zi’ Salvato’,” ha detto nonna. “E che volete che sia,” ha risposto lui, ed era pieno di vita, proprio su di giri, si voleva alzare dalla brandina, però Nononna e Vitti lo mantenevano giù. “Al massimo mi facevo un viaggetto nell’altro mondo... Ho lavorato in America, io!” “Nossignore!” ha esclamato nonna, che quando si trattava della vita sapeva a chi darla vinta. “Voi dovete campare ancora assai, mo’ avete un ragazzino di cui prendervi cura. Soprattutto da quando tutti i suoi parenti sono in galera.” E ha scrollato la testa.
Josh dalla porta ha fatto un colpo di tosse, non si sapeva mai che dicevano delle cose brutte su di lui, tanto valeva che sapevano che era lì. Infatti Nononna si è girata e ci ha visti, e pure zi’ Salvatore si è accorto di noi, alle volte la tosse è provvidenziale. “Vieni, vieni qua,” ha detto il vecchio. Josh era timido e si vedeva che non voleva andare, davanti a tutti, forse pure tutta quella vecchiaia gli faceva senso. “Vieni, vieni qua!” insisteva zi’ Salvatore. Allora, tutto storto, Josh è andato, quando era timido diventava ancora più sbilenco. “Vieni qua, tira ddo’!” ha detto ancora zi’ Salvatore, e a quel punto Refè è scoppiato a ridere perché quella è l’espressione con cui si chiamano i muli, chissà cosa gli diceva la testa a zi’ Salvatore. Josh si è piegato sul letto e lui, che era appoggiato su un cuscino, gli ha messo la mano tra i capelli e glieli ha scompigliati. “Sei fatto grande, Billy. Che si dice in America? Tua nonna è ancora lì che mi aspetta, eh? Dille che tra poco arrivo, devo finire di sistemare una cosina qua... Che vuoi da bere, una gassosa?” “Va bene, glielo dico a nonna,” ha risposto Josh, e io e Refè siamo rimasti di stucco perché non lo sapevamo che quei due parlavano così. “Gliel’hai detto a tua nonna di tenermi in caldo la minestra, che dopo arrivo?” “Come sempre.” “Bravo, perché qui tra poco finisco. Di’ a tua nonna di farsi bella, stasera la porto a ballare a Manatta, oggi è giorno di paga.” “Va bene, le dico di farsi bella che dovete uscire.” Quei due erano davvero andati. “A cena, e poi a ballare. Andiamo a Manatta!” “A cena, e poi a ballare,” ha ripetuto quell’orfanello di Josh, e mentre lo diceva zi’ Salvatore si è addormentato. “Finalmente ha fatto effetto,” ha detto il dottor Vitti, che era ancora in piedi dietro il tavolo e si stava godendo la scena (se proprio non troverò niente, penso che potrei pure fare il dottore, è un lavoro davvero molto divertente). “Non si voleva addormentare,” ha detto Nononna, “ma adesso è meglio se riposa.” Poi tutti l’abbiamo guardato con attenzione, perché lui aveva gli occhi chiusi e non ci poteva vedere, e la sua faccia era magra magra, come un fico secco, però bianca, e da quel fico sporgeva il nasone grosso e venoso, ma con la pelle trasparente come carta di riso, e puntava all’ingiù. Non era proprio una bella immagine, ma tanto lui stava dormendo.
Josh ha pure cucinato due chili di pasta con le patate e i fagiolini, era quello che la minima permetteva. Se n’è mangiata mezzo chilo solo lui, direttamente dalla pentola. Zi’ Salvatore continuava a dormire, e allora siamo andati ognuno a casa propria. Nel pomeriggio siamo ritornati, e sono passate anche Nina e le gemelle con Pasquina, per farci compagnia. Zi’ Salvatore di tanto in tanto si svegliava, ma poi si riaddormentava. Nononna gli ha attaccato una boccia con il cibo liquido che entra dentro il braccio con un tubicino, e se n’è andata. Seduti intorno al tavolo, noi giocavamo a qualche gioco, oppure parlavamo, mentre zi’ Salvatore continuava a dormire sulla brandina come se niente fosse. Per la prima volta c’era una festa in casa sua, e lui manco lo sapeva, la vita va tutta storta. Si vedeva però che Josh era preoccupato. Era preoccupato per zi’ Salvatore e per i suoi parenti. E per il palazzo della Menzasignor. Poi Nononna ha chiamato da casa ad alta voce, come facevano sempre tutti quando i figli dovevano tornare per mangiare. Infatti era ora di cena. Catina è rimasta lì, a preparare un po’ di carne per il ragazzo, e il brodo per il vecchio. Prima che andassimo via, Josh ha detto sottovoce a me e a Refè di trovarci alle dieci, dopo cena, lì a casa di zi’ Salvatore. Tutto voleva tranne che svegliare il vecchio che dormiva.
34.
Alle dieci in punto io e Refè eravamo lì. Abbiamo buttato dentro la testa, e zi’ Salvatore russava ancora come un treno, la bocca aperta e tutto il resto. Catina ha detto che il brodo non l’aveva voluto, ma aveva bevuto un po’ di camomilla. In quel momento è arrivata anche nonna, e Catina le ha raccontato che prima di addormentarsi di nuovo zi’ Salvatore era contento e le aveva dato appuntamento a Madison Square, perché – aveva detto – lì c’era un bar che faceva i migliori Margarita di Manatta. Abbiamo salutato e siamo usciti. Ci siamo diretti al cancello nero. Di notte faceva un po’ impressione, sembrava pure più alto. Ho guardato in su, ma di facce bianche con le lucine per ora non ce n’erano. Per fortuna in quella strada non passava quasi mai nessuno. Zi’ Concetta era andata a letto da un pezzo, sotto il porticato di casa sua c’era la poltrona vuota con i cuscini schiacciati. “Entriamo,” ha detto Josh. “Tu si’ pazz’,” ha risposto Refè. “Io là dentro non ci entrerò mai.” Allora Josh ha guardato me, ma io credevo che aveva ragione Refè. “Ma non c’è niente! Come fate a credere a una signora tagliata in due?” ha detto Josh sottovoce. Era una bella domanda, ma io mi cacavo sotto lo stesso, l’idea di vedere di nuovo la lucina mi terrorizzava, già una volta l’avevo vista e non avevo dormito per tre giorni. “No... Non possiamo entrare... È vietato dalla legge,” ho farfugliato, in mancanza di una scusa migliore. Un conto era se per caso ci entrava zi’ Rocco, e pure scortato da quei tre energumeni, un altro era se ci entravamo noi. Io il coraggio di entrare non l’ho trovato da nessuna parte, mi sono guardato pure in giro, ma niente, proprio non ne trovavo. Allora Josh ha capito che da noi non ci cavava niente, si è avvicinato al cancello, e in un attimo – quanto è vera la Madonna – quella lepre era di nuovo in cima, come aveva fatto la mattina che aveva salvato Donatino. Solo che adesso era notte, e tutti sapevano che la Menzasignor lavorava
soltanto col buio. Io e Refè ci siamo guardati e siamo rimasti immobili. Josh da là sopra ci ha fatto un cenno, ma noi stavamo sempre con la bocca aperta e il naso all’insù, e non potevamo muoverci per via della paura. Allora Josh ha scosso la testa e si è calato dall’altra parte della cancellata. In un attimo era dentro il cortile. Ha attraversato il giardino come se niente fosse. Io non lo so cosa mettono in mente a questi stranieri, ma la paura di sicuro no. Josh si è avvicinato al portone, e Refè ha detto ad alta voce quello che stavo pensando io. “E mo’ dove crede di andare sto cretino? Per forza che è chiuso.” E invece, quando Josh lo ha spinto forte, il portone si è aperto. Si è girato verso di noi, di nuovo. Abbiamo fatto i finti tonti. Allora è entrato. Tutto è possibile se non sai che non si può fare, e quello straniero non sapeva proprio niente, parola d’onore. Io e Refè ci siamo ritrovati soli lì in mezzo alla strada, e per toglierci di torno siamo andati a nasconderci dentro il magazzino di zi’ Concetta. Non si sa mai che la Menzasignor usciva, si sbagliava e decideva di prendersela con noi – meglio stare nascosti. Spiavamo a turno dalla serratura. Dopo un po’, Josh è venuto fuori come un felino. In una mano stringeva una specie di contenitore bianco. Allora piano piano siamo usciti, anche se non era proprio prudente. Comunque rumori non ce n’erano, e continuava a non passare nessuno. Lui ha attraversato il giardino. Stava con la faccia tra una sbarra e l’altra del cancello. Quello che reggeva nella mano era una tanica. Ha fatto segno di avvicinarci, doveva parlare. “È pieno di bidoni di benzina, là dentro,” ha detto, dall’altra parte del cancello. “Dovete venire pure voi, c’è una puzza di benzina da svenire lì dentro.” “Taniche di benzina?” Nella casa della Menzasignor mi immaginavo tutto tranne quello. “E sì, non hai capito?!” E Josh ha alzato quella che teneva in mano. Erano taniche grosse, sopra c’era scritto 35 litri. Josh sembrava spiritato. “Andiamo, venite dentro! Muovetevi... Ricchio’!” Quella l’aveva imparata da Refè. “Ricchion’ si’ tu,” ha detto prontamente Refè, e lo voleva menare, ma in mezzo c’erano sempre le sbarre.
“È contro la legge, non si può fare sfondamento in una casa,” ho detto. Non sapevo se era vero, però mi sembrava di sì. “Ma quale legge,” ha detto Josh. “Là dentro ci sono le prove che la mia famiglia non c’entra niente con l’incendio.” Poi è tornato verso il portone. Allora io non lo so cosa mi è preso, ma ho iniziato a scalare il cancello, perché va bene tutto ma passare per una femminuccia davanti a Refè mi seccava. Mi sono fatto coraggio e ho pregato Dio di togliermi dalla vista qualunque immagine di lumini, lucine, fiammelle e lampadine, altrimenti non ce l’avrei mai fatta. Quando sono arrivato in cima potevo solo scendere in cortile, perché a tornare indietro non ero più buono. Allora pure Refè si è fatto il segno della croce, si è baciato le dita ed è salito. Non poteva restare da solo. Il coraggio degli altri è contagioso. Come due gatti abbiamo attraversato il giardino pieno di erbacce e piante altissime, e abbiamo raggiunto Josh. Lui ha spinto il portone e siamo entrati. Per la prima volta eravamo dentro la casa della Menzasignor. Era meglio non pensarci, se no mi cacavo sotto. Dentro era tutto buio. Però c’era veramente una puzza incredibile di benzina che entrava nel naso e arrivava dritta al cervello. Poi gli occhi si sono abituati all’oscurità, e anche se lacrimavano per via della benzina, abbiamo cominciato a vederci. L’androne era enorme. C’erano armadi, divani, tappeti e cassapanche della Menzasignor, ma dappertutto era pieno di taniche bianche allineate contro le pareti. Josh ha sussurrato “saliamo, qua sotto ho già guardato io, sono solo bidoni”, lui le taniche le chiamava bidoni, ma che ci vogliamo fare. La scala era così larga che non ne avevo mai vista una uguale, ma magari era solo il buio che amplifica le cose. Era di marmo, e di rumore mentre salivamo non ne facevamo – almeno in quello eravamo fortunati. In cima si aprivano due corridoi, uno a destra e uno a sinistra, e in ognuno c’erano tre camere che davano sul cortile e tre che affacciavano all’interno. Abbiamo preso a destra. In una delle stanze sull’interno doveva esserci la persiana rotta, perché dalla porta aperta filtrava un po’ di luce nel corridoio, e faceva meno paura. Piano piano ci siamo avvicinati e abbiamo guardato dentro. La persiana era aperta, entrava la luce di un lampione. Niente: la camera era
vuota, a parte una rete con sopra un materasso, un comodino e un vecchio lampadario che pendeva da una lunga catena al centro del soffitto. Allora siamo andati a esplorare le altre camere. Solo vecchi letti impolverati e armadi ammuffiti, poltrone e divani. Nel corridoio di destra non c’era niente, ci siamo fatti coraggio e abbiamo proseguito a sinistra. L’avevamo appena imboccato quando mi è sembrato di sentire una voce. Ci siamo fermati. Josh si è messo un dito sulle labbra. Una voce, di nuovo. Arrivava dal fondo del corridoio. Abbiamo ripreso ad avanzare, piano. Dalle camere verso il giardino non arrivavano suoni. Passando abbiamo aperto le porte senza fare rumore, ma erano vuote. Verso metà corridoio ci siamo accorti che l’ultima porta in fondo era socchiusa, e da quella camera che affacciava verso l’interno arrivava luce. Eravamo fottuti. Quella era la lucina della Menzasignor – l’avevamo vista tutti e tre. Non avevamo scampo. Era solo questione di tempo. Io e Refè eravamo paralizzati, Josh invece è arrivato fino alla porta e dalla fessura dello stipite ha guardato dentro. Si è girato e ha fatto segno di raggiungerlo. Io e Refè ci siamo presi per mano come due signorine, e siamo andati. Da così vicino, arrivava la voce di un uomo. A volte si sentiva bene, altre no. Visto che eravamo fottuti, non c’era più niente che non potevamo fare. Piano piano ci siamo sporti anche noi per vedere dentro, dallo spiraglio da cui arrivava la luce, e per poco non mi è preso un colpo. Seduto a una grande scrivania c’era zi’ Rocco, e parlava con qualcuno che non riuscivamo a vedere. Della Menzasignor, almeno da dove stavamo noi, non c’era l’ombra. “...e questi sono i tuoi,” ha detto zi’ Rocco. Ha aperto un cassetto della scrivania e ha tirato fuori un sacco della spazzatura. Quello dall’altro lato del tavolo ha preso il sacco e l’ha aperto, e dentro era pieno di banconote, in mazzette fermate con gli elastici. Si è messo a contare i soldi, e non finiva più. Erano proprio tanti. Invece, quando ha finito di contare, ha detto “sono pochi”. Zi’ Rocco si è incazzato. “Non mi sembra che quando bisognava organizzare tutto ti sei lamentato,” ha detto, con quel vocione profondo.
“Ma non credevo che erano pure le terre... Avevamo detto la masseria, le stalle e i trattori... Le terre erano tante... Non finivano più di bruciare. Avevamo detto che le terre le risparmiavamo.” Quella voce mi è sembrata un po’ familiare, ma non ci ho fatto caso. “Credevo, credevo... Che ti credevi?!” ha gridato zi’ Rocco, e il vocione è rimbombato in tutto il palazzo. “Con me le cose o si fanno seriamente o non si fanno. E basta!” Da come parlava si capiva che poteva pure tirargli uno schiaffone a quell’altro, lo trattava come uno scarafaggio. Poi ha battuto due o tre volte i pugni sulla scrivania e così si è calmato. “Mo’ prenditi sti soldi e vattenn’. Questa storia è finita, non voglio più sentirne parlare.” Allora quello si è alzato, ha preso il sacco e si è spostato verso zi’ Rocco. È stato in quel momento che il pavimento si è aperto e mi ha risucchiato, per sempre. Lì ho smesso di essere un bambino. Ho stretto il sacchettino che portavo al collo e ho chiamato mamma, ma per la prima volta mamma non mi ha risposto. Ho riprovato a chiamarla. Niente. Mamma mi aveva abbandonato. Quando ne avevo più bisogno. In piedi davanti a zi’ Rocco c’era Ninuccio il sindaco. Josh e Refè mi hanno tirato per la maglietta, e siamo scappati, perché a tutto potevamo credere tranne a quello che avevamo appena visto. Ci sono cose che non si dovrebbero mai vedere. Come tre topi siamo strisciati in giardino e abbiamo scavalcato di nuovo il cancello. Poi ci siamo nascosti dentro il magazzino di zi’ Concetta. Avevamo ancora il cuore che batteva nella gola invece che nel petto. Poco dopo, dal portone del palazzo è uscito Ninuccio, nostro cugino. Ha attraversato di corsa il giardino. Con la chiave ha aperto il cancello, si è guardato attorno ed è sgattaiolato via. Al primo viottolo ha preso a sinistra, poi è scomparso. Dall’altra parte del palazzo, in corrispondenza della piazza dell’Orologio, abbiamo sentito una macchina che si metteva in moto. Doveva esserci un altro passaggio da quella parte, e noi non lo sapevamo neanche.
35.
Nessuno di noi quella notte ha chiuso occhio. Sarebbe stata meglio la Menzasignor, quanto è vero Iddio, almeno sapevi da che parte girarti. Quella cosa invece era come mille pugnali da mille direzioni diverse, ed è un gran casino. Fino a un momento prima tutto è semplice, poi non puoi più tornare indietro. La mattina dopo mi sono alzato appena ho sentito i rumori di Nononna che si preparava per aprire la bottega. Avevo bisogno di parlare con mamma, visto che non mi aveva risposto. Mi sono chiuso in bagno e l’ho chiamata. Non rispondeva. Poi l’ho richiamata. Niente. Non sapevo cosa fare. Ho infilato la mano sotto la maglietta e ho afferrato il moncherino di foto che portavo al collo. Mi aveva salvato nell’incendio, e mi aveva protetto cento volte, fino a lì. Avevo bisogno di mamma, non avevo mai avuto così tanto bisogno di lei. Tutto andava a rotoli, non sapevo cosa fare e lei faceva la finta tonta. Forse aveva di nuovo cambiato casa, forse si era presa un bambino nuovo e lui le aveva chiesto di abbandonarmi. Ho strappato lo spago dal collo, poi sono uscito dal bagno. Ho preso il sacchettino col moncherino di foto e l’ho infilato nel primo cassetto del comò. Quella cacata non mi serviva più. Se mamma non mi voleva vedere, peggio per lei: era una mezza vecchia già decrepita, mentre io avevo tutta la vita davanti. Se poi un giorno veniva a cercarmi gliela facevo vedere. Nina dormiva con i suoi occhi a mezz’asta, e non sapeva che il mondo là fuori era crollato. Sono sceso in cucina e nonna mi ha chiesto se ero caduto dal letto, non mi aveva mai visto in piedi così presto. Poi è arrivato pure Nononno, che doveva prendere il caffè. Papà invece dormiva ancora. Quella notte, mentre mi giravo e rigiravo, mi ero ripromesso di aspettare a dirlo, di parlarne prima con Refè e Josh e decidere insieme cosa fare, se dirlo o se no. Però i Nononni erano lì e a me il pugnale si conficcava dentro sempre di più. Allora non ce l’ho fatta, e mentre i Nononni si mettevano una punta di zucchero nelle tazzine ho parlato e ho raccontato tutto. Per filo e per segno. Di
zi’ Rocco e di Ninuccio il sindaco. Delle taniche. Del sacco pieno di soldi. Delle terre. Tutto. Sono rimasti zitti e immobili. Erano lì, ma era come se non ci fossero. “Quant’è vera la Madonna, l’ho visto con i miei occhi,” ho ripetuto. Poi mi sono spaventato, ho avuto paura di averli uccisi con quella notizia. Invece Nononna ha trovato per caso la poltrona sotto le chiappe e si è lasciata andare, nonno finalmente si è riavuto e si è preso la testa tra le mani. Guardava in basso, i gomiti sul tavolo. “Con i tuoi occhi... Con i tuoi occhi... Ninuccio...” ripeteva Nononna, e si vedeva che le parole le erano finite. Nonno sembrava che gli fosse caduta la lingua. “Non solo con i miei, l’hanno visto pure Refè e Josh, e se non ci credete adesso li vado a chiamare e ve lo dicono pure loro.” Allora mi è venuto il dubbio che i Nononni se ne fossero andati all’altro mondo, perché avevano chiuso gli occhi tutti e due, seduti com’erano, e non si muovevano più. Dopo un po’ nonno li ha riaperti. Si è alzato in piedi e ha detto “no, non c’è bisogno”. “Dobbiamo subito andare a dirlo a Umberto il maresciallo, dobbiamo farli arrestare tutti e due!” Ero convinto di quello che dicevo come del fatto che mi chiamavo Pietro. Nonna non parlava, Nononno scuoteva la testa e non riusciva a fermarsi. Era ancora più pallido di nonna, quei due facevano paura da quanto stavano male. Ma io avevo avuto tutta la notte per assorbire il colpo, loro l’avevano appena saputo. “Non li arresteranno mai...” Nonno ha aperto i palmi, e quello era un invito ad andare tra le sue braccia. Lo riconoscevo anche se erano passati tanti anni dall’ultima volta. Si era completamente rincoglionito? Era tornato indietro con gli anni? Comunque, per farlo contento sono andato. “Tanti anni fa è successa la stessa cosa...” ha detto. E se Nononno non fosse stato Nononno avrei detto che aveva pure gli occhi un po’ acquosi. Ma non poteva essere. “Ad Arigliana zi’ Rocco vincerà sempre.” La sua voce era calma. Era strano, non lo avevo mai sentito così calmo. Poi si è girato verso il quadretto appeso in cucina, e mi ha chiesto di leggere quello che c’era scritto. Io non avevo voglia, ma nonno ha insistito. Così ho letto. “Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la ragione, né la storia,” ho detto.
Mentre leggevo nonno faceva di sì con la testa, e guardava nel vuoto. Se non gli fossi stato in braccio avrei detto che era un fantasma. “Proprio così come dici tu, Pietro. Proprio così... Qui al Sud non cambierà mai niente... La giustizia non appartiene a questa terra.” La voce era un suono sottilissimo. Io non ci ho più visto dalla rabbia. Sono saltato in piedi, in braccio a lui non ci volevo più stare. Mi faceva schifo da quanto era vecchio e debole. Nononno era una signorina, altro che storie. Lui e mamma. Erano due delusioni. “Ma cosa dici!” mi sono messo a gridare. “Quelli sono due delinquenti, hanno incendiato le tue terre e la masseria col nome di mamma! Devono andare in prigione!” Avrei spaccato tutto. “Pietro...” Si è messa in mezzo nonna, con la stessa voce assente e terrificante di Nononno. “...Le terre non ci sono più. La masseria è bruciata, gli animali sono morti, le macchine rovinate.” Si è fermata, sembrava che si stesse mettendo a frignare, pure lei. Ha preso il fazzoletto dal seno e si è soffiata il naso. “È come l’altra volta... Zi’ Rocco vincerà sempre. Questa volta Ninuccio, l’altra volta qualcun altro...” Poi ha fissato il muro, dura. “E comunque quello non è più mio nipote!” “Non sono stati gli stranieri!” ho gridato, e in quel momento dalle scale è spuntata Nina. Stavo facendo un gran casino. “Non importa chi è stato!” ha gridato nonno. Si stava arrabbiando. “Non importa più! Finché in un posto ci saranno degli stranieri, sarà sempre colpa loro!” “Ma non è giusto!” ho urlato ancora più forte. “Non è giusto!” Nonno ha smesso di parlare. Fissava il vuoto davanti a sé e con le mani come due tenaglie stringeva il bordo del tavolo. Da lui non avrei cavato più niente. Con quei due rammolliti non volevo avere più niente a che fare. Non ero nipote loro, non potevo essere figlio della loro figlia. Pure mamma era una rammollita. Io i miei nonni li odiavo, perché ai miei nonni mancava l’unica cosa che fa di un uomo un uomo: il coraggio. Io lo so da quando ho quattro anni, grazie alla suora dell’asilo. Quei due vecchi si meritavano la vita schifosa che avevano avuto, perché erano due rammolliti buoni a nulla pronti a farsi schiacciare da un prepotente qualunque. Volevo dirlo a papà, ma era chiuso in camera perché era troppo depresso. Con la Masseria Rosi era andato in fumo anche il suo lavoro, il suo futuro. Lo conoscevo bene, dovevano passarne di giorni, prima di rivederlo normale. E io non potevo certo aspettare lui.
Ho sbattuto il portone e sono scappato via. Sono andato a chiamare Refè e Josh. Insieme abbiamo deciso che avremmo raccontato tutto a Umberto il maresciallo. L’abbiamo trovato nel suo ufficio che si faceva un caffè e fumava la prima sigaretta della giornata, anche se sui muri c’era il cartello VIETATO FUMARE. Quando ci ha visti era contento, mi sa che non riceveva molte visite di ragazzini. Ci ha pure fatti accomodare su tre sedie, come persone di riguardo. Lui si è seduto al suo posto e continuava a fumare la sigaretta, a fare nuvole di fumo e a sorseggiare il caffè. Non c’era tempo da perdere. “Dobbiamo dirvi una cosa importante, sporgere regolare denuncia,” ho detto io. Il maresciallo ha riso, poi ha schiacciato la cicca nel posacenere. “Siete nel posto giusto. Sentiamo.” Ho preso coraggio. “Sappiamo chi è stato a incendiare le terre,” ho detto d’un fiato. “E lo vogliamo denunciare alle autorità.” Il maresciallo ha riso di nuovo. “Ma pure noi lo sappiamo,” ha risposto, e quella era una risposta che non mi aspettavo. Poi ha guardato Josh. “Infatti li abbiamo arrestati.” Lo straniero stava per scattare in piedi, e si vedeva che voleva prenderlo a pugni in faccia. Io e Refè l’abbiamo tenuto. “Vi sbagliate, noi abbiamo le prove!” ho detto io, ed ero sicuro di fare un grande colpo di scena, ma il maresciallo non si è scomposto. “Ci sono tantissime taniche di benzina nel palazzo della Menzasignor, infatti quella sera noi eravamo alla masseria e c’era puzza di benzina, che vuol dire che prima dei fuochi di Ferragosto l’avevano sparsa ovunque, e sappiamo che a organizzare tutto è stato zi’ Rocco con l’aiuto del sindaco, che non doveva dire niente a nessuno, ed è pure mio cugino. Anzi, adesso non lo è più.” Ma il maresciallo non si scomponeva, io credevo chissà che, e invece era tutto come prima. “Ah, siete davvero ben informati... E come le sapete tutte queste cose, voi tre?” Adesso mi stava facendo arrabbiare pure lui, si era persino acceso un’altra sigaretta, anziché correre subito con la volante ad arrestare quei due. “Le sappiamo perché le abbiamo viste! Siamo entrati nella casa della Menzasignor!” ho detto. “Ah... E bravi!” ha esclamato il maresciallo. “Nella casa della Menzasignor... E ce l’avevate il permesso? Vi ha invitati, per caso? Lo sapete che quella è
proprietà privata?” Stava provando a fregarci, voleva vedere quanto eravamo preparati. “Siamo minorati!” ho esclamato. “Siamo prima della legge, non ci può succedere niente di male.” Però Umberto si è messo a ridere, e siccome era grasso e fumava, rideva come quelli che sono grassi e fumano, ogni tanto sputacchiava e noi dovevamo ripararci con le braccia. Insomma, uno schifo. “Abbiamo le prove!” abbiamo ripetuto, questa volta tutti e tre insieme. “Adesso dovete andare da loro e arrestarli!” Ma più parlavamo più quello rideva, e più rideva più tossiva, e più tossiva più dovevamo ripararci. “Allora, facciamo così,” ha detto quando si è ripreso, e il modo in cui si è fatto serio all’improvviso lo faceva assomigliare per la prima volta a un carabiniere. “Facciamo che voi vi dimenticate di essere venuti qui. E vi dimenticate anche di quello che mi avete detto...” Ha fatto una pausa. “E se fate i bravi, me ne dimentico pure io. Va bene?” “No!” ho gridato. “Voi non capite, gli stranieri non hanno fatto niente! Sono innocenti!” A quel punto il maresciallo si è incazzato. “Sei tu che non capisci, ragazzino. Se non la finisci, metto tutti e tre al carcere minorile di Potenza per aver violato una proprietà privata.” Poi si è tirato giù la giubba della divisa e si è calmato un po’. “Voi vi dimenticate di tutto e io non vi arresto.” Ha allungato la mano. “Affare fatto?” La mano a quel porco non l’avremmo stretta neanche morti. Ci siamo alzati e ce ne siamo andati.
36.
Quello stesso pomeriggio, però, senza dire niente a nessuno, se n’è andato zi’ Salvatore. È stato Josh a trovarlo, dopo pranzo, tutto dritto dentro la branda al pianoterra. Quando ha capito cosa era successo non sapeva che fare. È stato con lui un bel po’, ha fatto bollire l’acqua per il tè e ha lavato due tazze – erano pulite, ma voleva essere sicuro. Ha messo due cucchiaini di zucchero nella sua tazza e uno nell’altra, poi ha versato il tè, quello alla menta che piaceva a zi’ Salvatore. Ha girato il cucchiaino per sciogliere lo zucchero, poi è andato a chiedere a zi’ Salvatore se ne voleva un po’, non si sa mai. Lui non ha risposto. Allora Josh ha ripetuto la domanda. E poi basta. Zi’ Salvatore era sdraiato sulla brandina con addosso una trapunta a quadri e la testa appoggiata su due cuscini, spuntava solo quel grande naso che pareva una vela, tanto era trasparente. Sembrava che zi’ Salvatore stesse guardando un punto sul soffitto, invece Josh sapeva che non guardava niente. Poi ha finito il suo tè, mentre quello del vecchio si raffreddava. Ha messo la tazza nel lavandino ed è venuto a dirlo a Nononna, perché non c’era una persona migliore ad Arigliana a cui farlo sapere. Nonna era in cucina, e c’eravamo pure io e Nina, anche se io ero ancora incavolato nero. Nina era buttata sopra di lei, perché l’ingiustizia di bello ha che rende vicini. Nonna non ha detto niente. Ha passato una mano sui capelli dello straniero, poi è uscita ed è andata da sola a casa di zi’ Salvatore. Josh è rimasto impalato dov’era, dentro la cucina dove all’inizio di quell’estate aveva mangiato dalla pentola come un morto di fame, e guardava me e Nina che adesso eravamo abbracciati sulla poltrona di nonna. Poi Josh ha fatto una cosa che non aveva mai fatto da quando era arrivato ad Arigliana, e Nina non riusciva a staccargli gli occhi di dosso perché quando uno piange è così, vogliamo vedere le espressioni che fa, perché onestamente sono strane. Quando anche io, Nina, Refè, le gemelle e Pasquina siamo andati a casa di zi’ Salvatore per salutarlo, tutti stavano già parlando del funerale da organizzare.
Noi non volevamo stare là. Però non sapevamo cosa fare, eravamo scornacchiati. Allora Refè ha detto “andiamo alla scuola vecchia”, e siamo andati. Visto che di classi per via dell’emigrazione non ce n’erano più, l’unica elementare rimasta si teneva in una stanza del Comune, così risparmiavano il riscaldamento e tutte le altre bollette. La scuola era vicino al campo sportivo, all’ingresso del paese. Quell’edificio, che aveva proprio la forma che doveva avere, con il portone, la segreteria, i finestroni e tutto il resto, adesso era solo il ricordo di una scuola. È un po’ triste, ho pensato, quando le cose diventano il loro ricordo, perché non le puoi più cambiare. Quella era la scuola dove avevano studiato prima i Nononni, e poi anche mamma e papà: adesso era solo il tempo che si era fermato. Siamo entrati, ed era strano, perché in tutti gli anni che ero stato ad Arigliana io e Refè non ci eravamo mai andati, neanche per farci una sigaretta o tirare i sassi ai vetri. C’era il portone sfondato, le finestre rotte, le porte delle aule senza le maniglie – se le erano fregate, come pure i cessi e i lavandini nei bagni, e anche il bidet nei servizi dei professori. Mi sono immaginato la mia professoressa di italiano che si faceva il bidet, e quello mi ha tirato un po’ su di morale. In un corridoio c’erano sedie e banchi sparsi ovunque, i banchi accatastati come veniva e le sedie buttate alla rinfusa. Sembrava un asilo dopo un giorno senza maestre. Siamo saliti al primo piano, e dentro le aule era ancora tutto ordinato come se gli alunni fossero appena usciti, con le sedie infilate sotto i banchi. Sono entrato in una classe, fuori c’era scritto V B, mentre Refè e Josh andavano in giro per i corridoi e Refè lanciava delle grida, perché rimbombavano forte dentro gli spazi vuoti e gli facevano sentire che c’era. Poi ho fatto una cosa che sa solo Nina. In quella classe abbandonata e silenziosa, con la cattedra in ordine e piena di polvere e la luce che entrava obliqua dalle finestre illuminando il pulviscolo, mi sono seduto sulle sedie, una a una, le ho provate tutte, e per ogni banco ho fatto finta di essere un bambino diverso, ma a volte anche una bambina, perché avevo bisogno di sentire che ero vivo. E poi mi sembrava di vedere pure mamma, perché la verità è che in quelle aule lei ci aveva studiato. Alla fine mi sono alzato e sono andato alla cattedra, e ho fatto finta pure di essere un insegnante. La cattedra non era di quelle lisce e pulite, sopra aveva un sacco di segni incisi con i coltellini, c’erano i nomi delle persone, alcune date,
delle scritte. C’era scritto Libertas, che Nononno mi aveva detto che in una lingua antica vuol dire libertà, ma in verità era il segno di un partito politico. Poi mi sono accorto che anche su alcuni banchi c’erano dei segni incisi, e allora ho iniziato a pensare a chissà quando erano stati fatti, magari prima della guerra, magari dopo la guerra, magari dopo che la scuola era già stata chiusa... Però sembravano vecchissimi. Mentre giravo tra i banchi mi è venuto mal di pancia e avevo i brividi, come quando mi sale la febbre a trentanove. Allora mi sono dovuto sedere. Perché ho visto una cosa che non avrei mai potuto pensare di vedere, lo giuro su Dio. Tutto avrei potuto immaginare, tranne quello. Su uno di quei banchi c’era inciso il nomignolo di mamma. Chiaro e tondo. È vero che era la scuola dove anche lei aveva studiato, però trovare proprio lì un segno suo era un regalo incredibile. E io che avevo pensato male di lei. Scusa, mamma, mi è venuto da dire. Perché sono un figlio malfidente. Ho passato il dito sopra il banco. C’era scritto proprio: Rosi+Bia. Rosi era mamma. E Bia era papà. Erano per forza loro. Allora non mi aveva abbandonato. Rosi+Bia. Mi sono sentito così carico di energia, così tanto carico di vita che non si può spiegare. Non mi ricordavo neanche da quanto tempo non mi sentivo così vivo e pieno di cose da fare. Erano talmente tante che non avrei saputo dove appuntarle per ricordarmele tutte, e la mente mi scoppiava da quanto erano belle. Tutto quello che mi faceva venire la febbre i primi mesi che mamma aveva cambiato casa, tutte quelle cose brutte: in quell’attimo tutto è svanito per sempre. E allora mi sono messo a saltare e a ballare come uno scemo dentro quell’aula, gli altri due erano saliti al secondo piano, li sentivo che camminavano sulla mia testa e facevano un gran baccano, si erano proprio trovati quei due, non c’è che dire. Così io potevo ballare da solo tra i banchi, ed essere felice in santa pace, perché la felicità cresce a dismisura se nessuno ci guarda, visto che già ci guardiamo noi, e non potrebbe esistere niente di meglio al mondo. Così mi sono trasformato in un clown, ho fatto un bello spettacolino, volteggiavo e cadevo, mi giravo a destra e mi arrivava uno schiaffo da sinistra, tiravo il dito e facevo una pernacchia, mi davo la mano e prendevo la scossa. Insomma, da morire dal ridere. In un angolo, vicino a un vecchio armadio, c’era ancora una scopa, l’ho presa
e mi sono messo a ballare, e volteggiavo e volteggiavo, e facevo giravolte, e ballavo il valzer e la mazurca, e anche la tarantella e il rock’n’roll, e un ballo l’ho fatto con Michela, poi un altro con Linetta, perché sono un cavaliere e le ragazze bisogna farle ballare tutte. Ma il più bello, il tango, quello l’ho lasciato per mamma, perché a lei piaceva tanto ballare, e quell’anno alla festa dell’Unità non se n’era fatta manco uno, perché papà non c’era, e allora meglio approfittarne finché nessuno ci vedeva. Così, mentre la conducevo avanti e indietro, facendo un caschè abbiamo urtato contro il vecchio armadio. L’anta si è aperta e sono cadute un po’ di cose, in mezzo a un sacco di polvere. Il sole che filtrava dalla finestra l’ha illuminata e sembrava una nuvola grande di polvere di gesso. Poi la nuvola si è dissolta e per terra c’erano sparse un sacco di cose inutili, un cancellino primitivo, gessetti bianchi, fogli ingialliti. E un’altra cosa. Ora, lo so che è difficile da credere, ma a quel punto i miei occhi si sono spalancati come la porta del garage della casa di Milanox. Perché io lo sapevo che prima o poi sarebbe arrivato, io lo sapevo che avevo sempre avuto ragione a cercarlo dappertutto, ed era talmente tanto tempo che lo aspettavo e lo cercavo ovunque che quando l’ho trovato l’ho subito riconosciuto. Era lì, davanti ai miei occhi, ed era quasi come l’avevo sempre immaginato. Sotto tutto quel gesso e quei fogli ingialliti, sbucava una cosa. E quando le cose ti chiamano, ti chiamano. Quando sono lì, sono lì per noi. Non importa se ci sono state per un secondo o da sempre. Piano piano mi sono avvicinato, non volevo fare rumore. Mi sono accovacciato, l’ho pulita dalla polvere e dal gesso. Poi finalmente l’ho stretta in mano. Ho alzato il braccio e l’ho sollevata fino al raggio di sole. E avevo ragione, perché quella cosa in mezzo alle cianfrusaglie, e lasciata lì da mamma perché io la trovassi, era proprio quello che avevo cercato per tutta la vita, che lo si creda o no. Quello che stringevo era il moncherino di una foto. Avevo paura, però. Proprio paura. Perché c’era una cosa da controllare. Allora ho cercato tutto il coraggio del mondo e l’ho girato, quel moncherino.
Di scatto, velocissimo. Non ci volevo rimanere male, non si sa mai. Sì. C’era una scritta. A inchiostro blu. Senza leggere, ho preso quel moncherino e me lo sono infilato in tasca.
37.
La mattina dopo Josh è venuto a svegliarmi prima dell’alba. Era entrato quando Nononna si faceva il caffè, era salito e me lo sono trovato proprio di fianco al letto. Io avevo gli occhi chiusi per far credere al sonno che non mi aveva fregato. Quando mi ha toccato una spalla ho girato la testa e l’ho visto. Chiunque mi potevo aspettare, tranne lui. Ma ormai era diventato uno di famiglia, non mi faceva più impressione. Nina continuava a dormire, quando dorme a quella non la svegliano manco le cannonate. Josh l’ha guardata, e aveva qualcosa di strano negli occhi, come se ne sentiva la mancanza anche se la vedeva. Sono stato geloso, perché mia sorella, senza che sapeva di essere guardata, la potevo guardare solo io. In ogni caso, Josh mi ha fatto cenno di alzarmi e io mi sono alzato. Con le mutande non potevo uscire, quindi mi sono infilato i pantaloncini e la maglietta di Spiderman. Mentre passavamo in cucina, Nononna ci ha chiesto se volevamo la colazione, ma ho risposto che avevamo una cosa importante da fare, anche se non sapevo cosa – ma non c’è sempre bisogno di sapere tutto. Quando siamo usciti, l’aria era fresca e buia. Il sole ancora tardava, e Josh ha detto “andiamo da Refè”, e anche quello era ovvio, ma a volte serve a darsi coraggio. Così l’ho ripetuto anch’io, “andiamo da Refè”. Quando siamo arrivati al lammione, Refè si stava preparando per uscire per il pascolo. Era vestito da pastore, che voleva dire come al solito ma con al collo un fazzoletto rosso, che serviva per le pecore, perché il rosso è il colore del comando. Allora tutti e tre insieme abbiamo fatto la strada che porta alla campagna di zi’ Rocco, e il pezzo dopo il torrente visto dall’alto era tutto nero e morto. Però, prima del torrente, siamo entrati nella casupola. Refè ha preso le chiavi del lucchetto del recinto delle pecore e ha liberato Lupo.
Quando le pecore sono uscite è stata una bella cosa. Se si è a corto di piacere, basta liberare qualcuno e ci si sente subito meglio. Così, mentre le pecorelle correvano fuori disordinate e felici, andando verso chissà che, in tutto quel frastuono, e mentre continuavamo a camminare, Josh ha detto “io me ne vado”. Né Refè né io abbiamo capito, però non ci è importato, perché il più delle volte quando quello straniero parlava non si capiva niente. A volte facevamo finta per non farlo sentire diverso. Solo che quella volta una cosa importante da dire lui ce l’aveva per davvero, così in mezzo al baccano delle pecore che belavano disordinate ha ripetuto “io me ne vado”, che voleva dire che se ne andava da Arigliana e dalla Lucania, e da quelle colline e dai campi gialli e da quelli neri e morti, e da tutto il resto. Insomma, se ne andava, punto. “Torno al mio paese.” E non siamo certo stati a dirgli come faceva, il suo paese era lontano, e poi a piedi non ci si muove, minimo minimo si deve prendere il pullman. Perché lui di soldi non ne aveva, e i suoi erano in prigione, e almeno aveva ancora gambe e piedi buoni, e cosa puoi avere di meglio dalla vita. Così guardando avanti abbiamo detto sì, perché le pecore bisognava continuare a tenerle d’occhio, anche se c’era Lupo che è un bravo cane. E allora, camminando tutti e tre, uno di fianco all’altro, con le pecore che ci precedevano, siamo arrivati a una collina da cui si vedeva bene la linea del torrente che passava là sotto. Più in là c’era la terra annerita. Dopo un po’ che camminavamo, ci siamo seduti in cima a quella collina, e siamo stati in silenzio per un sacco di tempo. Tutti e tre. Noi. Uno di fianco all’altro. Noi tre. A guardare giù, a quello che poteva essere e non era stato. Finché Josh si è alzato. Ci ha salutati. Poi, come se niente fosse, ha preso a camminare. Si è incamminato giù per la collina, verso una piccola valle, e poi verso la cresta di un’altra collina che stava di lato. Poi è arrivato in cima a quell’altra collina. Si è fermato. Non si è girato. Dopo ha cominciato a scendere, ed è diventato un puntino. Poi non era più neanche quello: non c’era più.
Eravamo rimasti soli, io e Refè. Eravamo ancora io e lui, come sempre, come quando eravamo piccoli, però adesso mancava qualcosa, anzi c’era qualcosa di troppo, e ci sarebbe stato per sempre, perché quando le cose arrivano poi non se ne vanno più. Le pecore non si erano accorte di niente, mangiavano. E per loro è una cosa come un’altra. Lo sapevamo tutti e due, io e Refè, che dovevamo trovare un altro modo per stare insieme. Però per quello ci voleva tempo, e adesso ne avevamo tanto. Di estati da passare insieme ne avremmo avute parecchie. Poi le pecore hanno iniziato a scendere verso il torrente di sassi. Lupo si è fermato ad aspettare Refè. Refè doveva continuare il pascolo degli animali di zi’ Rocco. Di quel bastardo di zi’ Rocco. Siccome era tanto che non parlavamo, mi ha guardato come per dire “be’, tu che fai?”. Però l’unica cosa che potevo fare era andarmene. E così me ne sono andato.
38.
Nel tragitto verso casa non ho smesso un attimo di giocare con il moncherino di foto che tenevo in tasca dal pomeriggio prima. L’estate era quasi finita, ed era sembrata lunga come una vita intera. Si vedeva che l’autunno voleva arrivare, il sole non sorgeva più tanto presto. Stava iniziando appena ad albeggiare. Quando sono arrivato dai Nononni, Nina dormiva ancora. Era bellissima, non sapeva che Josh se n’era andato. Allora, seduto di fianco a lei sul letto, ho ripensato alla scritta sul banco, Rosi+Bia. Mamma mi aveva fatto proprio una bella sorpresa. E io che avevo dubitato. Sono andato ad aprire il primo cassetto del comò, piano piano, non volevo svegliare Nina. Ho preso il sacchetto di tela con il mio moncherino di foto: era stato il portafortuna di mamma e ancora manteneva il suo profumo, anche se l’avevo portato pure io. Era il momento di aprirlo. Poi dalla tasca ho preso l’altro moncherino. Il cuore mi batteva fortissimo. Lo sentivo in gola. Mi sono seduto sul mio letto, mi sono fatto coraggio e ho messo i due moncherini di foto l’uno vicino all’altro. Li ho coperti con le mani. Le persiane erano chiuse, la luce entrava dalla porta. Con uno scatto ho tolto le mani. Lì per lì è stata un po’ una delusione. Perché non è che i due moncherini combaciassero alla perfezione. Anzi. Uno era a colori e l’altro in bianco e nero, e pure un po’ più piccolo. In quello di mamma c’era quella bambina con quel bel cappottino giallo canarino che aveva rubato gli occhi a pertusidd’ di Nina, con la torre sullo sfondo. Nell’altro, un’altra bambina, con il braccio alzato, che guardava verso chissà chi la teneva per mano, ma non si vedeva perché era stato strappato via. Però le cose non devono per forza avere tutti i lati che combaciano alla perfezione, ho pensato. No?
Magari anche due cose un po’ diverse finiscono con lo stare bene insieme. Sapevo che dovevo girarli e leggere la frase di mamma, ma non avevo ancora il coraggio. Poi ho fatto un po’ di baccano, perché Nina si è girata e ha aperto gli occhi. Che bella, Nina. Allora ho preso in fretta i due moncherini e me li sono cacciati in tasca. Nina ha mosso la mano per ripararsi dalla luce, e ha sbadigliato. “Che fai?” “Niente, sto qui,” ho risposto. Ha allungato le braccia e si è stirata. “Stai qui e mi guardi mentre dormo?” “Sì.” “Tu sei tutto scemo.” In quel momento dalla porta della camera è spuntato Canetto, chissà da dove arrivava. Era da un po’ che non veniva a trovarmi. Si è fermato sulla soglia. Ci guardava e scodinzolava. Sembrava felice. Si è girato verso la scala, ha mosso qualche passo, le unghie ticchettavano sul pavimento. Poi si è fermato ed è ritornato alla porta della camera. Ha scodinzolato di nuovo. Ho capito: voleva che lo seguissi. Ho guardato Nina, ma a lei Canetto non interessava. Allora mi sono avvicinato e le ho dato un bacio lungo sulla fronte. Tanto era ancora per metà dentro i sogni. Però ha sorriso, quasi come se quel bacio glielo avesse dato mamma. “Vado a fare un giro,” ho detto. “Dove vai?” “In giro.” “Quando torni?” “Dopo.” Ho seguito Canetto, abbiamo sceso le scale. Siamo passati davanti a nonna che armeggiava in cucina, poi siamo usciti in strada. La luce finalmente iniziava a brillare. Le cose cominciavano a riprendersi i loro colori. Canetto saltellava, da quanto era felice, scodinzolava velocissimo.
Si fermava e aspettava che lo raggiungessi, poi correva avanti. Andavamo verso l’uscita del paese, dove inizia la campagna. Era la stessa strada da cui ero appena tornato, lì dove Josh era partito e Refè aveva continuato il suo lavoro. Siamo arrivati alla collina, la stessa dove la schiena di Josh era sparita. Mi sono seduto a terra, nella parte più alta, ho guardato la valle. Canetto si allontanava e giocava da solo. Annusava i fiori, correva, voleva prendere una farfalla al volo. Il mondo, per la prima volta stava nascendo, proprio in quel momento. Le cose, insieme alla luce, prendevano forma e colore, e giuro che così belle non erano mai state. La notte era consumata, tutto era una promessa. Ho provato felicità, non so come né perché, so solo che è stata la prima volta della mia vita, e la prima volta non si scorda mai. Dovevo trovare il coraggio. Dovevo girare i due moncherini e leggere la frase. Chissà che bella sorpresa mamma mi aveva preparato. Allora ho tirato fuori i due moncherini dalla tasca e li ho appoggiati sull’erba. C’erano due bambine felici che guardavano avanti e non sapevano molto. La parte che mamma si era sempre portata in giro era più sbiadita e sui margini si scollava, era un po’ più grandina dell’altra. Li guardavo. Ho preso coraggio. Ho trattenuto il respiro e velocemente li ho girati. Dietro quello nuovo c’era una scritta a penna blu, con un’elegante calligrafia allungata. Avevo un po’ paura a leggere, poi però ho letto. Forse era un po’ diversa da come me l’ero immaginata, ma era per colpa di tutto il tempo passato. Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece. Era una frase bellissima. Poi ho letto le due frasi insieme: FotoCOLL Arigliana. Arigliana, Matera, 13 marzo 197-, e Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece. Viste così non c’entravano molto, però è anche vero che tutte e due erano
scritte con l’inchiostro blu. In quel momento ho capito che quella frase era davvero tutto quello che mi ero sognato fino a lì, e che non potevo sognare niente di meglio. Quella era la risposta che mamma non aveva fatto in tempo a darmi prima del trasloco, e finalmente me l’aveva fatta trovare. Canetto era giù dalla collina, e ha cominciato a saltare. Scodinzolava, si buttava per terra, si girava verso di me, poi tornava a saltare. È stato allora che l’ho vista. Nell’istante in cui il sole ha superato l’orizzonte e la luce ha vinto sulla notte e ha inondato ogni cosa. Nella valle, di fianco a Canetto, c’era mamma. Portava il mio vestito preferito, quello bianco con i grandi girasoli. I capelli ricci contro il sole la facevano sembrare proprio una leonessa. Mamma mi ha guardato e mi ha sorriso da lontano. Poi Canetto la tirava dal vestito perché voleva correre avanti a giocare, allora mamma ha alzato il braccio e con la mano mi ha fatto ciao. Era in mezzo alle colline, tutto intorno a lei era verde e pieno di fiori. Si vedeva che era un po’ triste e che preferiva me, però poi si è voltata di spalle. Guardava lui. Vedevo i suoi capelli ricci. Canetto abbaiava, saltava dappertutto, voleva continuare a camminare nella valle. Mamma ha aspettato. E poi l’ha seguito. Il vestito bianco volava nel vento di fine agosto. Allora sono rimasto solo. Non sapevo cosa fare, così ho letto di nuovo la frase. Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece. E quello, credetemi o no, è stato il momento in cui finalmente mi sono ricordato la mia domanda, quella che avevo fatto a mamma quel giorno e che mi scappava ogni volta. Però adesso non è il momento giusto per dirvela, perché altrimenti finisce che mi sento più solo di quanto in verità sono. E poi quel sole che nasceva era la cosa più bella che avevo mai visto, era la promessa di una cosa nuova da iniziare. Per la prima volta mi sentivo vivo, tutto era come una grazia. Volevo splendere, quello sì. Quello che posso dire è che non lascerò passare questa vita senza che lei prima
sia passata attraverso di me. È questione di precedenza, non so se mi spiego. Facciamo così?
Nota dell’autore
La frase che compare più volte nel romanzo, e che gli dà anche il titolo, è la trascrizione sbagliata di uno stralcio dalle Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini (Einaudi, 1976), che così recita: “I ‘destinati a essere morti’ non hanno certo gioventù splendenti: ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece, Gennariello”. Questo libro nasce dal mio amore per il Sud, la terra di cui sono originario e che amo. Ma nasce anche da alcune chiacchierate sul Sud, il suo passato il suo presente e il suo destino, che mi è capitato di fare con un grande studioso del Mezzogiorno, e scrittore – e caro amico –, che non c’è più: Alessandro Leogrande. Lui, e la sua opera, qui voglio ricordare e ringraziare.
Indice
E tu splendi Nota dell’autore