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PerformanceArt
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L’intento di questo funzine è dare un’idea generale sulla Performance Art. Un tipo di arte confusionale, ma allo stesso tempo affascinante che esce dai convenzionali schemi. In queste poche pagine si cerca di spiegare in cosa consiste, com’è nata e chi sono i suoi massimi esponenti. Buona lettura!

01. IN COSA CONSISTE LA PERFORMANCE ART?

Wha Carne. Sangue. Corpo e spirito a nudo. Imprese estreme, provocatorie, velleitarie o folli. Mai, però, gratuite. Il mondo della performance art è uno dei più enigmatici e complessi da analizzare, e anche uno dei più capaci di colpire, scioccare e far reagire il pubblico. Forma più estrema dell’arte, quella della performance è una pratica antica, che vede al centro dell’opera la vita e il corpo stesso dell’artista.

Una modalità d’arte spesso unica e non-replicabile, tesa a comunicare messaggi forti e spesso a dimostrare i limiti della nostra percezione.

Il mezzo principale della performance art è il corpo, considerato il materiale concettuale su cui si basa l’azione, mentre altri componenti chiave sono il tempo, lo spazio e la relazione tra l’artista e chi assiste alla performance.

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“La Performance Art è una forma d’arte che vede una o più persone compiere azioni in un determinato arco temporale, in uno spazio definito, per un pubblico. Il fattore cruciale è la presenza dal vivo dell’artista e il suo svolgere azioni con il corpo, per creare una immediata ed effimera esperienza artistica per il pubblico presente.”

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02. POSTMODERNISMI

Post Mod La performance, dunque, sembra essere una traghettatrice del paradigma contemporaneo. Siamo, per cominciare, nel luogo dell’aperto, del dislocamento, del frammentario, dell’esperienza. La performance è un ipertesto in cui si inscrivono reciprocamente azione dell’artista ed esperienza del pubblico. Peggy Phelan, una delle voci più autorevoli dei Performance Studies, argomenta: “L’intera disciplina è stata creata come una risposta reazionaria alle simultaneità e virtualità del postmodernismo”. E non è un caso che lo stesso concetto di performatività si sia diffuso in seno alle teorie post-moderne e post-strutturaliste. Del resto il termine ‘performance’ condivide le sorti del termine ‘postmoderno’: in entrambi i casi si tratta di un termine “elastico”, “ombrello”.

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Come la parola ‘postmodernismo’, coniata in ambito architettonico e filosofico, è stata fagocitata nella pratica descrittiva di comportamenti e modalità individuali, sociali e artistici, allo stesso modo notiamo un abuso del termine ‘performance’ e ‘performativo’. Sembra infatti che questi ultimi siano fra i termini più utilizzati nel linguaggio della critica d’arte, o da parte degli artisti, utilizzati per garantire una sorta di onnipotenza artistica e intellettuale.

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03. L’ARTE E IL SUO PROCESSO

Proc La storia dell’arte registra già alla fine degli Anni Sessanta la cosiddetta performative turn: un mutamento nell’estetica che si basa sul processo di sconfinamento, che si realizza nell’evento e non più nell’opera. L’esperienza dell’evento è riferibile alla sfera del comportamentale e del processuale, e quindi le azioni non rappresentano qualcosa, piuttosto definiscono o fondano. Non si tratta quindi di una questione di espressività – concetto opposto a quello di performatività – ma di un’istituzione che avviene attraverso un atto sociale e comunitario che ha in seno le caratteristiche del rito e dello spettacolo. La performance sembra dunque fondarsi sul gesto teatrale, ma produce uno scarto rispetto ad esso per farsi arte visiva.

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Di certo tale slittamento ha a che fare con una totale disponibilità dei linguaggi e con un’attitudine alla contaminazione, se non alla confusione: “Questo nuovo percorso della performance partiva anche dal mondo delle discoteche, della moda e da lì passava al teatro, attuando un’altra transizione completamente differente. Ora tutto è possibile: l’arte può accadere in teatro e il teatro può trovare il suo luogo nell’arte”. Si tratta di liberare il sistema delle belle arti dai caratteri dell’illusionismo e della virtualità che, come ricorda Renato Barilli, sono stati da sempre i caratteri basilari e secolari delle beaux arts, per secoli appoggiate a “una sorta di proiezione su superficie dei vari dati relativi alla presenza del corpo”.

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04. IL CASO ABRAMOVIC

Mar L’opera condotta da Marina Abramović è da considerare un vero e proprio canone del performativo per le sue azioni e le sue teorizzazioni che, non a caso, trovano uno dei momenti più alti in una mostra-spettacolo (The Artist is Present, 2010) che va a toccare quello che è uno dei caratteri fondanti dell’evento, cioè l’appropriarsi dell’elemento dello spettacolo e la sua stessa mutazione. La tecnica della Abramović si fonda sulla ritualità, mai sull’improvvisazione. Mettere in atto, fondare o restituire ritualità sono costanti del suo lavoro, poiché queste sono, secondo l’artista, le uniche modalità che ci permettono di abbattere quella scissione dualistica propria della cultura occidentale, che separa corpo e mente, uomo e natura. L’uso della simbologia dei colori tibetani, degli oggetti primitivi o delle tradizioni indigene restituiscono nella forma ciò che nella teoria è dato dal parallelo sviluppo degli studi post-colonialisti.

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rina Torniamo indietro nel tempo, nel 1974, quando proprio Marina Abramovic rischiò di lasciare le penne in una delle sue più famose azioni, dal titolo “Rhytm 5”. Quella che doveva essere la rappresentazione di un rito di purificazione, con una grande stella a cinque punte di legno data alle fiamme dove l’artista gettava piccoli pezzi del corpo come unghie e capelli, si è quasi trasformata in un rogo funebre.

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05. LA RIVINCITA DI ULAY

Leis È l’uomo che ha fatto piangere Marina Abramovic quando lei immobile come una sfinge, magnetica come un guru, seduta di rosso vestita per 716 ore nella sala del Moma a New York, incarnava un’epocale e mistico-esistenziale performance in cui a piangere erano piuttosto i visitatori che ad uno ad uno le si sedevano di fronte. Finché, dinoccolato, arriva Ulay, suo passato storico amore. Sorridendo la guarda, le prende le mani e Marina si scioglie in lacrime. Anche gli astanti si commuovono tutti, mentre il video, divenuto virale, strazia a sua volta i cuori degli art-addict del web. Soprattutto chi aveva l’età per ricordare l’addio di quella mitica coppia di performer che nel 1989 si lasciano nell’incontrarsi, dopo aver percorso a piedi tutta la Grande Muraglia cinese. Lui da un lato, lei dall’altro.

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Da allora Marina ha scalato lo star-system, ha attraversato i confini dell’arte, ha raggiunto uno stato da pop star. Ulay invece ha seguito sulla sua strada con teutonica determinazione.

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06. NASCE LA PERFORMANCE ART FOUNDATION

ndat Dal report Arts & economic prosperity, redatto l’anno scorso da Americans for the Arts, si evince che il settore delle arti a San Francisco fatturi, ogni anno, quasi un miliardo e mezzo di dollari e impieghi oltre 39mila persone con posti di lavoro full-time. L’ultimo progetto annunciato è la Performance Art Foundation voluta dalla collezionista Carla Emil. Carla Emil, membro del consiglio di amministrazione del SFMoMa e grande collezionista assieme al marito Rich Silverstein, racconta in un’intervista concessa ad Artnet che“questo progetto nasce da una necessità. Sono coinvolta nel panorama artistico di San Francisco e ho sentito per molto tempo che mancava uno spazio come Park Avenue Armory a New York e la Turbine Hall alla Tate Modern di Londra.

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Quindi, visto che nessuno si faceva avanti, ho deciso di fare da sola ed inaugurare C Project”. C Project può essere definito come un progetto itinerante: periodiche saranno, infatti, le commissioni di artisti che dovranno pensare a performance site-specific in diverse parti della città. L’artista islandese Ragnar Kjartansson, amico di Carla Emil, è stato scelto per inaugurare la Fondazione con un progetto, curato da Tom Eccles, direttore esecutivo del Bard College Center for Curatorial Studies,che sarà presentato nel corso di tre giorni dal 9 al 11 novembre 2019 presso il Women’s Building, un centro per le arti e per l’istruzione femminile. Per l’occasione l’artista presenterà Romantic Songs of the Patriarchy, una serie di canzoni d’amore di diversi generi scritte da uomini ma recitate anche da donne. Ad un primo ascolto sembreranno essere le tipiche melodie romantiche che tutti conosciamo ma, soffermandosi sui temi e sulle parole utilizzate, gli spettatori potranno acquisire inedite chiavi di lettura.

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Funzine a cura di Sofia Norgaard Manara Corso di Computer Graphic NABA, Graphic Design & Art Direction A.A. 2017/2018

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